ANDREA CIOMMIENTO | Il Mittelfest è una festa della “terra”. Da venticinque anni la rassegna friulana rigenera le vie di Cividale del Friuli, vicino a Udine, con un cartellone ricco di spettacoli, incontri, concerti ed eventi collaterali di danza, musica, scena e teatro di figura. Sfogliando il programma dedicato al binomio Terra/Fuoco saltano agli occhi i nomi di Carlos Santana e il suo concerto d’apertura, Stefano Benni con la regia del nuovo spettacolo (“Pecore Nere”), Paolo Mieli e Vittorio Sgarbi come ospiti delle conversazioni in scena, il China National Opera con un grande evento performativo. Rilevanti, poi, tutti i momenti strettamente legati ai frutti della terra insieme a Slow Food, Terra Madre e Comunità del Cibo, esperienze sentimentalmente rivoluzionarie e quotidiane sul “vivere lento” in un tempo contraddistinto dalla velocità.
In quest’ultimo fine settimana abbiamo seguito, tra i debutti nazionali, il nuovo lavoro di Simone Cristicchi, conosciuto dal grande pubblico per il suo impegno civile attraverso le sue canzoni. Il cantautore torna in scena diretto per la seconda volta da Antonio Calenda, dopo il pienone dei teatri di tutta Italia con il precedente “Magazzino 18” (spettacolo di successo accompagnato da polemiche legate al tema trattato sugli esuli istriani e giuliano-dalmati); in realtà Cristicchi da tempo calca le scene arricchendo il suo percorso teatrale di storie importanti a vocazione civile e attraversando tematiche legate alla follia, al lavoro, al razzismo.
La sua nuova creazione – “Il secondo figlio di Dio” – lo vede solo in scena per raccontare la vita di David Lazzaretti, il pazzoide, così definito dal criminologo Lombroso, un predicatore che ribaltò il suo sguardo sul mondo grazie a una precisa visione cristiana e a una determinata follia mistica; un’esistenza resa muta, beffata dal clero e al contempo osannata da intellettuali come Gramsci. La scena è scarna, un grande carro in legno determina ambientazioni e ampiezze secondo spostamenti che lo stesso attore cura simultaneamente alla propria narrazione di fatti e persone: porte vaticane e architetture ecclesiali, villaggi e società contadine, uomini del popolo e della chiesa. Presenti in un teatro di parola incarnato dall’unico protagonista sostenuto musicalmente dal vivo da un’orchestra nascosta e dal numeroso complesso di voci (Ensemble Magnificat di Caravaggio), a volte in scena con lui ma per buona parte presenti solo con la propria voce. L’efficacia performativa di Cristicchi è ormai consolidata, sa affrontare la sfida del “monologo musicale” o altrimenti chiamato “musical civile”, tenendo alta l’attenzione di centinaia di spettatori che a fine spettacolo dimostrano il proprio affetto con lunghi applausi e corpi alzati in piedi. Se da una parte si presenta un teatro dalla struttura drammatica a sfondo retorico e celebrativo, dall’altra se ne apprezzano le qualità incantatorie facendo risuonare le questioni legate a un periodo storico italiano e a parole di rivoluzione e spiritualità con un taglio inconsueto.
Di altra misura e richiamo, il debutto nazionale di “Birdie” del collettivo catalano Agrupación Serrano che solo un anno fa ha vinto il Leone d’Argento alla Biennale di Venezia, segnalazione che premia le nuove poetiche di artisti della scena internazionale. Nella passata stagione li avevamo già seguiti in diversi momenti, al Festival Mirabilia di Torino con lo spettacolo sulla crisi economica spagnola, la bolla finanziaria e le contraddizioni sociali sull’abitare (“Brickman Brando Bubble Boom”) e alla Biennale di Venezia con l’allegoria pop in stile western del conflitto politico-economico tra Bush e Bin Laden (“House in Asia”). Lavori interessanti nella multidisciplinarità e nell’interazione dei linguaggi artistici tra video, performance, narrazioni accessibili a tutte le tipologie di pubblico, oggetti in miniatura. Anche “Birdie”, un racconto multitasking sui flussi migratori di persone e cose, conferma la poetica dei Serrano e il gioco squisito dei loro dispostivi utilizzati in scena.
In una conversazione pubblicata su PAC lo stesso Alex Serrano racconta come i veri strumenti comunicativi, oggi, non siano più gli attori ma “Skype, Facebook, le videocamere: sono questi gli strumenti reali che usiamo ogni giorno. In fondo un attore è qualcosa che non forma parte della nostra vita quotidiana. Lavoro con persone, certo, ma un attore è qualcosa di molto lontano e diverso dalla persona, per questo preferisco usare nei nostri spettacoli un performer o qualcuno che ha le nozioni dell’attore ma che non sia precisamente un attore.”
La dichiarazione si conferma anche in questa nuova creazione, superando la presenza del performer qui sostituito da una voce che appare molto simile a quelle voci di conversione testuale. In scena solo tre creatori – Alex Serrano, Pau Palacios e Alberto Barberà – e un misterioso figurante con una felpa rossa seduto di spalle dall’inizio alla fine. Rispetto ai due lavori precedenti il ritmo trova altri tempi e respiri, apre decine di finestre come pop-up internet che possono a volte distrarre ma mai confondere.
Il pubblico segue le immagini che scorrono una dopo l’altra sovrapponendosi e generando un conflitto strettamente legato alla percezione di chi guarda lo spettacolo. Un conflitto di sensi ed emotività, conflitto legato alle migrazioni e alle contraddizioni di un Occidente che si sente vittima dell’invasione dei “barbari” scordando e omettendo tutto ciò che ha portato a questo nostro tempo contraddistinto da paure, terre che tremano e visioni paranoiche della realtà.