RENZO FRANCABANDERA | È una bella sorpresa il Festival Troia Teatro, che si svolge nell’avvolgente borgo medioevale in provincia di Foggia (che vale assolutamente una visita e non solo per i noti e pregevoli monumenti, paradigmi dello stile romanico) lungo la via dei pellegrini che univa i grandi luoghi santi d’Europa. Il Gargano era tappa obbligata con il mistico santuario di San Michele. E Troia un arcivescovado importante sulla rotta dei romei. 

Qui da 10 anni Francesco Ottavio De Santis e i ragazzi di Teatri 35 stanno sviluppando un progetto non semplice ma che sta crescendo in ambizioni e opportunità, attorno ad una comunità che partecipa incuriosita in sempre maggior numero agli appuntamenti di un Festival assai ibrido. Parliamo dell’anima buskers di molti eventi di piazza e  della rassegna di piccoli ma interessanti allestimenti teatrali proposti al pubblico nel programma ufficiale (quest’anno TeatrodiLina, Canio Loguercio, Carlo Bruni, Armamaxa fra gli altri), ma anche alle scelte di più ampio spettro (con riferimento ai linguaggi) di atti creativi e work in progress che la direzione artistica sceglie attraverso un bando e che propone poi ad una giuria di critici per una selezione che assegna in ultima istanza un premio finale in denaro di 1500 euro.

Venialità a parte (che però in fatto d’arte dal Medioevo ad oggi sono sempre state importanti per chi di questo vive), Troia è stata in questi 10 ultimi anni luogo di residenza e opportunità per realtà in crescita delle arti sceniche italiane, fra cui appunto Teatrodilina, sodalizio di Lagi, Colella & c. che qui vinse alcuni anni fa con Ziguli’, lavoro poi come noto premiato da una circuitazione nazionale.

Quest’anno ancor più che nelle passate edizioni la direzione artistica ha voluto quasi provocare la giuria, inserendo fra i candidati al premio finale una creazione video tal quale, spingendo artisti, critici e pubblico a confrontarsi in modo ampio sull’esistenza nel nostro tempo dei confini nei linguaggi.

Francesco Ottavio De Santis, direttore artistico del Fèstival Tròia Tèatro, a proposito del concorso Eceplast 2016 ci ha confermato questa idea.

“La cosa interessante di quest’anno è stata la discussione che si è tenuta durante i talking about, in cui si sono confrontati critici e artisti. In particolare si è discusso su cosa sia la spettacolarizzazione, quali siano i confini dei diversi linguaggi artistici, come si possano mettere a confronto e in comunione le arti nel tempo presente. Un altro elemento interessante emerso è la direzionalità degli spettacoli, non solo orientata al teatro, ma ad una creatività plurale e multimediale.”

Il vostro concorso ha un tema diverso ogni volta? 

“Al concorso di quest’anno si è voluta assegnare una tematica ampia, incentrata sui sentimenti, non solo amorosi: sul sentire che porta all’azione ricercando tra forme artistiche diverse. Negli anni passati sono stati proposti come temi l’etica, la teoretica, l’estetica, il rapporto potere-movimento. Quest’anno è stato importante riflettere sul “sentire” per capire cosa possediamo dentro.” 

Quale è l’interesse precipuo della direzione del vostro Festival?

“Interessa a noi del Fèstival Tròia Tèatro soprattutto portare spettacoli che siano ancora in divenire e che alimentino una discussione reale sul teatro.”

Al di là della vittoria finale, assegnata, grazie a Mamma – piccole tragedie minimali,  da Mamme di Annibale Ruccello del 1986, alla compagnia partenopea Matremo Teatro, è innegabile che molta curiosità abbia suscitato la partecipazione al concorso di un cortometraggio, Faber Navalis, del regista Maurizio Borriello (disponibile online a questo link).

Il teatro sta conoscendo questa possibilità: una recente creazione di Anagoor è di questa portata.

Potremmo tuttavia più opportunamente rimandare, per individuare il filone stilistico all’interno del quale questa specifica creazione si inserisce, a quanto fatto nel 2013 da Crialese con il suo spot per i 100 anni della Banca Nazionale del Lavoro.  Eppure ancor più interessante termine di paragone e confronto argomentativo è il corto del 2014 “San Siro”, realizzato dal video artista Yuri Ancarani all’interno di un progetto sui santi nella città di Milano, della durata di pochi minuti ed esposto come video installazione in diverse prestigiose sedi museali, disponibile su YouTube a questo link

Parliamo, nel caso di Faber Navalis come degli altri due video menzionati, di tre creazioni senza sostrato drammaturgico. Nessuna trama, dunque, ma la precisa volontà di una narrazione fatta di sole immagini e suoni registrati in presa diretta o poco più. 

Anzi, sicuramente in tutti i tre casi, e in quello di Borriello in modo ancora più netto, l’universo udito, pur senza mai arrivare a definire una colonna sonora è, insieme alla luce, alle geometrie e al costante rapporto prometeico di scoperta e creazione fra azione umana e mondo degli oggetti, il tema cruciale di un cortometraggio che volutamente guarda ad un approccio sinestesico: per ovvi limiti tecnologici, solo vista e udito formano oggetto dell’indagine di Borriello, ma i due sensi vengono indagati e stimolati in modo volutamente ampio.

Si finisce per trovarci, noi spettatori, come il regista e protagonista del corto, all’interno di un cantiere navale in Norvegia, assistendo, attraverso lo sguardo di camere fisse e fissamente mobili, tra controcampi, controluci sui cieli scandinavi, dissolvenze incrociate, montaggi analogici e sottile umorismo, alla sostituzione di un pezzo di legno della chiglia di una nave. Questo il tema e lo svolgimento dell’opera di Borriello, che dura 33 minuti.

Il regista si immortala come protagonista nell’opera, homo faber ispirato non da intenti didattici o documentaristici, ma da una sottile voluttà estetica e autobiografica, che lui stesso reclama sostenendo di essere partito dall’idea di creare un video curriculum.

Lo svolgimento è andato oltre questo intento primigenio per realizzare un’opera che solo nel finale, con la sigla sui titoli di coda (a differenza degli altri due lavori menzionati), rompe la rispondenza del sonoro al mondo di cui si narra per introdurre un ulteriore elemento autobiografico, un canto del sud Italia sulla fatica del fare.

Ancarani racconta lo stadio milanese come infrastruttura grandiosa capace, come il film suggerisce fin dall’inizio, di avere un suo respiro, di essere abitata da altri oltre l’uomo. Di essere meccanica colossale di fronte alla quale, come nella Tempesta in Giorgione, l’uomo si fa piccolo.

In Borriello invece l’uomo, piccolo rispetto alla nave ma anche per sineddoche alle sue parti, diventa via via nel film più grande, minore ma non inferiore alla macchina che anzi lui stesso costruisce dopo aver domato la natura.

Singolari in entrambi questi lavori alcuni fotogrammi in cui le forme sinusoidali dell’infrastruttura urbana e della chiglia della nave incorniciano la presenza umana in uno sfondo di essenziale nitore estetico.


La creazione è viva e pulsante anche se il montaggio di Borriello non arriva ad evitare talune ridondanze concettuali che allungano di alcuni minuti l’opera rispetto ad una sorta di ideale essenziale che sta, a nostro avviso, nell’evocare senza poi mai tornare ad insistere sullo stesso schema creativo, anche a costo di rinunciare ad alcuni fotogrammi, pur belli e lirici. Ulteriori piccoli sacrifici nel montaggio rispetto al girato avrebbero probabilmente esaltato la limpidezza del detto, che invece in certi tratti flette nel ripetersi, seppur con elementi diversi, di concetti su cui la regia aveva già posto l’accento e richiamato l’attenzione dello spettatore.

Le essenzialità degli altri due lavori di cui suggerivamo la visione come elementi di confronto rispetto all’opera di Borriello, possono rappresentare utili confronti stilistici a cui con piacere facciamo mente locale mentre scendiamo dalla collina di Troia con ancora negli occhi le pietre millenarie del borgo dauno, imboccando fra le colline appena trebbiate dai raccolto di grano la rettilinea autostrada che segna dritta la Puglia da nord ovest a sud est per molti molti chilometri ancora.

Scendiamo dalla collina coccolati da un calore umano e da intenzioni vere e non di speculazione sull’arte, quell’aria che si respira in pochi posti e festival dedicati allo spettacolo dal vivo, come a Sansepolcro o Albenga, dove il piccolo borgo della nostra bella Italia ancora ci commuove, con quelle quattro maledette pietre scolpite mille anni fa, in cui riconosci il leone e il cane, la pecora e il grifo, che ti salutano dall’alto di qualche cattedrale che sopravviverà con ogni probabilità al genere umano.