Rumore di acque Foto Luca Centola
Ph: Luca Centola

 

ALESSANDRA CORETTI | Si insinua tra il fegato e lo stomaco, facendo emergere un graduale senso di disgusto, “Rumore di acque”, spettacolo scritto e diretto da Marco Martinelli, su progettazione condivisa con Ermanna Montanari, che ne cura anche lo spazio, le luci e i costumi insieme ad Enrico Isola. Il monologo – realizzato con il patrocinio di Amnesty International – ha fatto tappa di recente nella Città dei Sassi, inserito nella programmazione del festival Nessuno Resti Fuori. A graffiare la scena, con i suoi gorgheggi lavici, Alessandro Renda; la voce dell’attore segna la profondità dello spettacolo, non interpretando ma incarnando il testo. I versi di Martinelli sembrano incastonati nelle corde vocali di Renda, che riesce a condurci nel mondo degli Inferi mettendo il pubblico nella posizione di relazionarsi all’opera interrogandola. Di pronunciare la parola responsabilità. La responsabilità di un’umanità in malora trincerata in anestetici silenzi. “Rumore di acque” tocca Matera nel suo formato più agile; a parlarci dell’origine dell’opera e di come sia diventata un gesto necessario di bellezza è il protagonista dello spettacolo.

Come nasce Rumore di acque e quali sono le fonti a cui la pièce attinge?

Nel 2009 eravamo immersi nella drammaturgia di Molière, prefigurando uno spettacolo cangiante e corale che è diventato “detto Molière”. Da una suggestione di Ravenna Festival, festival della nostra città, a cui avevamo proposto il progetto, scegliemmo di sviluppare il lavoro a  Mazara del Vallo, città di cui Marco si innamorò subito e a cui io sono particolarmente legato perché luogo di origine di mia madre e dei miei nonni. Il progetto  partì nel modo che per noi Albe è il più naturale possibile: sostando in quel luogo e conoscendo persone. Iniziammo un laboratorio della non-scuola con una sessantina di adolescenti siciliani e tunisini. Nel frattempo io, Ermanna Montanari e Marco Martinelli, sostando a Mazara, eravamo completamente ammaliati ma allo stesso tempo terrorizzati da quel mare. Innoridivamo leggendo, dalle cronache dei quotidiani, delle tragedie delle immigrazioni; colpiti dalla freddezza mediatica per cui la morte è raccontata solo in termini numerici. Si sminuiva un fenomeno che, per proporzioni, poteva essere considerato un nuovo Olocausto di cui come cittadini europei non possiamo che sentirci corresponsabili. Abbiamo cominciato a documentarci filtrando le informazioni attraverso le voci di quei pochi giornalisti curiosi che approfondivano il fenomeno. Di grande aiuto sono stati i testi: “Bilal” di Fabrizio Gatti, “Mamadou va a morire” e “Il mare di mezzo” di Gabriele Del Grande; l’Osservatorio sulle vittime della frontiera “Fortress Europe”, che veniva aggiornato costantemente sul numero dei morti e dei dispersi dei migranti che attraversano il Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa. Si parlava di ventimila vittime, senza contare coloro che alle barche non sono mai arrivati perché morti nei deserti della Libia o nelle carceri. Trovandoci a Mazara che, pur non essendo la principale, è una delle porte successive d’Europa, avevamo la possibilità di ascoltare testimonianze dirette da parte dei capitani dei pescherecci, che tanti salvataggi avevano fatto, da parte dei migranti stessi e dei militari che avevano pattugliato quel mare. Decidemmo quindi di dare un senso diverso al nostro sostare lì a Mazara e spostammo l’attenzione da Molière a quei numeri terrificanti e al desiderio di dare loro voce. Dopo una fase di inchiesta, Marco, di getto, scrisse un monologo potentissimo, la cui prima stesura è rimasta quasi totalmente invariata nella sua restituzione scenica.

L’architettura poetica e il perimetro formale del lavoro conferiscono allo spettacolo una densità non narrativa, ma marcatamente politttttttica – per usare una parola a voi Albe molto familiare. Come avete lavorato per seguire questa direzione e quale ruolo ricopre lo spettatore all’interno di Rumore di acque?

Sin da subito si sono avuti chiari gli obiettivi del lavoro: non creare uno spettacolo consolatorio in cui lo spettatore potesse sentirsi più buono semplicemente per aver condiviso il dolore di qualcun altro. Si voleva lavorare sulla sgradevolezza e sul senso di responsabilità dei cittadini europei anche solo nel non essere adeguatamente informati sull’argomento. Uno spettacolo dunque politttttttico con sette t, che agisse in profondità, parlasse alle viscere dello spettatore, facesse stare male, risvegliasse le coscienze. Non uno spettacolo di risposte e certezze confezionate, ma un teatro che si nutre di domande, di dubbi. Ci interrogavamo su chi potesse dare voce a queste storie. Da un’intuizione lanciata da Ermanna Montanari, a partire dalla storia dell’isola Ferdinandea, abbiamo collocato la visione su un’isola vulcanica immaginaria, nel mezzo del Mediterraneo. Marco Martinelli aveva già pensato al protagonista: un generale che si ispirava a Gheddafi, non come figura pubblica, ma come persona sgradevole, grottesca e contradditoria: dittatore in patria e accolto con le migliori onorificenze altrove. In fin dei conti un povero diavolo anche lui, che sbriga il lavoro sporco per conto di altri. Quel generale è diventato uno strano contabile, ossessionato dai numeri, che deve praticare per conto delle capitali europee una politica degli accoglimenti. Il suo sbraitare e catalogare numeri genera storie assolutamente vere, come quelle di Jasmine e del giovane Jean-Baptiste che, raccontate in chiave grottesca, colpiscono lo spettatore come pugnalate.

La sintassi recitativa dello spettacolo è estremamente precisa e connotata. Potresti parlarmi di come hai gestito la presenza corporea e vocale nella messa in scena di Rumore di acque?

Il veicolo principale di “Rumore di acque” è il testo che fornisce delle dinamiche di totale fissità. Il generale non si muove praticamente mai; in piedi davanti a un microfono si concede la luce scenica solo in pochi momenti rivolgendosi agli spettatori. La voce è stata un veicolo fortissimo per rimanere in un grado non sentimentale, il generale non può essere un personaggio sentimentale per il lavoro che ci interessava creare; quella voce rimane nel grado di sgradevolezza a cui tendevamo. È  una voce che sembra passata attraverso gorgheggi fatti con la lava, trasmette qualcosa di vulcanico. Lo sfinimento psichico e fisico, dato dal protrarre quel tipo di intensità vocale, incide ovviamente anche sulla maschera del generale e sul tipo di fissità che indossa.

Rumore di acque debutta nel 2010, nell’ambito del trittico Mazara-Ravenna 2010, successivamente vengono modificate alcune soluzioni drammaturgiche dello spettacolo generando una seconda versione. Quali sono le differenze e quale delle due proponi a Matera?

La versione che porto a Matera è nata a Milwaukee nell’ottobre 2015 dalla collaborazione con Theatre Gigante che ha fortemente voluto “Rumore di acque” dopo averlo visto, due anni prima, a Chicago. Della versione originale è cambiato l’apparato musicale, inizialmente affidato al canto melodioso dei Fratelli Mancuso che creavano una sorta di contrappunto dal vivo con la voce fastidiosa del generale. Nello spettacolo si intrecciavano due atmosfere: la violenza grottesca del generale e il lirismo dei Fratelli Mancuso. A Milwaukee invece ho lavorato sull’agilità del formato spettacolare partendo dalla creazione di un nuovo tessuto sonoro. Ho avuto il piacere di incontrare Guy Klucevsek, un grandioso fisarmonicista di origini slovene, che unisce suggestioni classiche della sua terra a sonorità contemporanee. Insieme abbiamo lavorato a una nuova partitura musicale che conferisce allo spettacolo una diversa temperatura modificandone anche alcuni elementi scenografici: la tomba marmorea sulla quale era collocato il generale è diventata una spirale vulcanica, una sorta di isolotto immaginario. Attualmente coesistono queste due versioni che non sono in contrapposizione, ma neanche la stessa cosa. Entrambe però conservano l’essenza dello spettacolo: il testo scritto da Marco Martinelli. Un poemetto in versi che custodisce le questioni poetiche rilevanti del lavoro.

Quanto il tuo occhio e la tua sensibilità da filmmaker hanno orientato l’andamento del lavoro?

Per “Rumore di acque” ho lavorato su diversi piani: da attore – facendo  ricerche sul campo per arrivare a incarnare la maschera del generale,  da guida, conducendo un laboratorio con sessanta adolescenti, “Cercatori di tracce”  in cui abbiamo messo in relazione le poesie di poeti arabi e siciliani di mille anni prima con i sogni e gli incubi delle nuove generazioni di migranti con un piede su una sponda e un piede sull’altra. Tutte queste cose, le ho sempre seguite con la telecamera, usando quest’ultima come un taccuino per gli appunti. Avrei voluto creare un documentario che raccontasse l’intera esperienza, mi sono nutrito di immagini raccogliendo molti materiali che però sono stati sorpassati dagli eventi. Quattro anni dopo ho deciso di scremare il materiale e di montare lo stesso per lasciare un segno del  mio peregrinare ed è nato Mare Bianco: due viaggi poetici che hanno sullo sfondo Mazara del Vallo, così profondamente araba nei colori e nelle strutture architettoniche, da trasmettere un senso di spaesamento – tipico di alcuni luoghi del Mediterraneo – a cui aderisce uno spaesamento personale legato alle mie origini.

A quali nuovi progetti ti stai dedicando?

Ci sono le nuove produzioni del Teatro delle Albe: il progetto Dante e “Va’, pensiero”, che debutteranno nel 2017. Contemporaneamente sto portando avanti l’idea di un film ambientato tra  il porto industriale di Ravenna e il Lido Adriano. Per il momento c’è una prima stesura della sceneggiatura. L’abbiamo già inserito nel calendario-Albe, speriamo di poterlo realizzare nel 2018.