MATTEO BRIGHENTI | La corsa per la libertà è il rischio della vita per la vita. L’identità è il tutto per tutto. Non c’è ritorno, sarebbe, è la fine, esiste solo l’andata, guadare avanti, un altro inizio in cui poter scegliere chi essere o diventare. Ce l’ha scritto addosso, negli occhi e nella stretta di mano, Aleksandros Memetaj, che in Albania casa mia racconta il razzismo del Nord-Est e l’immigrazione dei genitori, clandestina per la legge, legittima per il diritto alla speranza. Ma lo sanno bene anche Maurizio Sguotti, Tommaso Bianco, Alex Nesti e tutta la compagnia Kronoteatro di Albenga, provincia di Savona, che hanno voluto fare “a tutti i costi” Terreni Creativi festival, Premio Speciale della Giura al ‘Nico Garrone’ 2016. Per continuare a proporre, nelle forme di una rinata convivialità sociale che intreccia tessuto produttivo e culturale, un modo alternativo di vivere il teatro contemporaneo, la danza, la musica, nonostante la sofferenza finanziaria delle aziende agricole che ospitano il festival e l’appiattimento degli investimenti a livello nazionale e locale (contributi dal Mibact e dal Comune, solo il patrocinio dalla Regione).
“Settimo anno, la Crisi”, infatti, è titolo di questa edizione, e sui manifesti una grande mano strizza un limone, dopo averne spremuti tanti altri, ma il succo nel bicchiere non basta neanche lontanamente a riempirlo. L’asperità, il prosciugamento di risorse ridotte alla buccia è stato mitigato dall’appoggio di amici, colleghi, operatori e pubblico, dimostrato anche durante la campagna di crowdfunding (82 i sostenitori, tra cui anche chi scrive, e 5060€ raccolti), e dalla disponibilità di artisti e maestranze, che hanno prestato il loro lavoro a compensi minimi.
Una sensibilità, un sostegno che, al di là dell’affetto, ci pare trovi in Terreni Creativi la forza, dedizione ed entusiasmo della costruzione di una parte della propria identità. Non a caso, il giorno in cui siamo stati ospiti, mercoledì 3 agosto, per l’apertura del festival, cittadinanza, confini, nazionalità e migrazioni sono stati i temi di un’intensa riflessione su comunità e popoli. Negli spazi dell’azienda L’Ortofrutticola, riadattati a sale teatrali, abbiamo assistito alla presentazione del libro Atlante delle micronazioni (Quodlibet) a opera del suo autore, il giornalista e critico teatrale Graziano Graziani, a un assaggio de Il giro del mondo in 80 giorni, lo spettacolo-game di Sotterraneo con Verne, e a Simurgh, un mito del Medio Oriente trasposto dal Teatro dei Venti in un sogno aereo. Albania casa mia, invece, è andato in scena all’interno del Pre-festival / Tempo presente.
Solo, senza musica o luci a effetto, scalzo, Aleksandros Memetaj indossa una felpa a righe, quasi il foglio su cui colleziona le parole per imparare l’italiano o le sbarre della sua condizione di diverso, estraneo, di immigrato, in cui lo rinchiudono i suoi compagni di classe a Fiesso d’Artico, provincia di Venezia. Scritto dal giovane attore 24enne originario di Valona, formatosi alla Scuola di Teatro Fondamenta di Roma, e diretto da Giampiero Rappa, Albania casa mia è un racconto (auto)biografico tra destino e scelte, un monologo di freschezza e onestà cristalline, vincitore del bando Avanguardie 20 30 2016.
Il corpo è praticamente immobile, sono le mani che corrono, come la catena della bicicletta con cui Aleksandros si prende la rivincita sul bullo Matteo Satto. Niente pause, vuoti, i respiri sono ridotti al minimo, non vuole dimenticare nulla, vuole essere sicuro di dire tutto. Di accelerazione in accelerazione pedala dalle storpiature del suo nome al motto discriminatorio della gente del Nord-Est (“Albania casa mia” del titolo), alla prima volta in cui, a 7 anni, ha incontrato l’Albania: a Brindisi, nella fila di macchine all’imbarco dei traghetti. Al pari di un Novecento di Baricco, ma senza pianoforte, attraversa la sua nave per strati sociali, fino a un’ultima porta che dà sul mare. Lui, piccolo piccolo, quella distesa blu, grande grande, e in mezzo il viaggio, in parte dentro di sé e in parte fuori, come la stessa recitazione di Memetaj.
Insieme a lui è salpato per Valona anche Alexander Toto ed è sua la soggettiva che ci riporta all’Albania della caduta del comunismo. “Non c’è più speranza in Albania nel 1991 che è la malattia più brutta in cui uno Stato possa cadere”. Il presidente Ramiz Alia ha concesso il diritto di viaggiare fuori dallo Stato e tra le migliaia di persone che cercano di scappare verso l’Italia c’è anche Toto, allora trentenne, a bordo del peschereccio ‘Miredita’ (Buon giorno) con la moglie e il figlioletto di cinque mesi e mezzo. In Albania c’è tutto da perdere, si è tutti uguali, cioè tutti ugualmente poveri. Mentre l’orgoglio albanese è la loro prima rivendicazione di identità, come ha dimostrato Toto la prima volta che è venuto in Italia, in Veneto, a Fiesso d’Artico, adattandosi a lavorare in pizzeria, pur se ingegnere fisico.
Memetaj ha la capacità di (far) vedere le cose che dice, gli atteggiamenti, le movenze, i dialetti che impasta sono utili a farci entrare nella vicenda, Albania casa mia è teatro di narrazione e liberazione civile vicino per approccio e tematica a Italianesi di Saverio La Ruina. Del ‘Miredita’ sentiamo la paura, il buio, l’aria irrespirabile, e quando l’attore si leva la felpa, la ripiega e la stringe tra le braccia, è il padre Alexander Toto che culla suo figlio Aleksandros Memetaj, e viceversa, ed è anche il mare della determinazione che culla entrambi. All’arrivo nel porto di Brindisi un ultimo muro li separa dall’Italia: quel salto nel buio, con uno sforzo fisico titanico, è la luce del giorno che Memetaj ha deciso di accendere ogni sera in scena. Per non smettere di dire “grazie”.
Alexander Toto cercava una casa che rivendicasse il suo stato nello Stato. In un certo senso è quanto ambiscono fare i fondatori delle micronazioni: è la percezione della totale distanza dalle leggi del centro e l’incapacità di poter contare e cambiare le cose che spinge taluni a dichiarare l’indipendenza finanche del proprio giardino, a farsi ‘re’ a casa propria. Graziano Graziani ha mappato 50 casi nel suo Atlante delle micronazioni. Joshua Abraham Norton, un imprenditore statunitense, si autoproclamò a metà 800, con il nome di Norton I, imperatore degli Stati Uniti d’America e protettore del Messico, diventando protagonista anche di Huckleberry Finn di Twain. Dopo un investimento che l’aveva gettato sul lastrico, decise di scrivere al giornale della sua città, San Francisco, chiedendo di ‘licenziare’ Lincoln e firmandosi Norton I. Il direttore lo pubblicò allora e continuò a pubblicarlo ancora, avallando così la sua percezione imperiale. Al suo funerale accorsero in 30.000 e sulla tomba l’epigrafe recita “Io, imperatore degli Stati Uniti”. Non lo è stato per la legge, ma per se stesso e i suoi concittadini sì. L’anarchico Michele Mulieri fondò nel 1950 un Repubblica tutta sua a un bivio stradale nei pressi di Grassano, paese della provincia di Matera. Se la legge non soddisfa la cittadinanza, allora può essere cambiata? Nel 1968 Giorgio Rosa, contro tasse e accise, proclamò la nascita di uno Stato indipendente e sovrano, con tanto di costituzione in esperanto, sull’Isola delle Rose, una piattaforma di 400 metri quadrati, ancorata a quasi 12 chilometri al largo di Rimini, 500 metri oltre le acque territoriali italiane. Gli esempi che fa Graziani spaziano tra le motivazioni più disparate, dall’idealismo alla goliardia, dalla truffa allo spettacolo, come nel caso del collettivo artistico di Lubiana NSK, di cui fa parte la band techno-rock Laibach: all’ingresso non si paga per un biglietto, ma per un visto temporaneo dell’NSK State, che inizia e finisce con il concerto.
Dunque, l’utopia dipende da come la riempi. Jules Verne rende possibile Il giro del mondo in 80 giorni lanciandolo alla velocità rocambolesca di Phileas Fogg e del suo fidato Passepartout. Non conta il paesaggio, ma finire il giro il più velocemente possibile, non importa scoprire nuove culture, ma vincere la scommessa. Sotterraneo, che già avevamo visto a Teatri di Confine 2016, (si) diverte, in questo primo giorno di festival, con un quiz introduttivo a personaggi e incontri del romanzo, con domande al pubblico e allo stesso Graziano Graziani, invitato a fare da ‘spalla’ al gruppo.
Otto attori e due musicisti live sono i creatori di Simurgh del Teatro dei Venti, una visione, un sogno, una magia di trampoli, bastoni, macchine sceniche. Fluttuano nella notte, tra le casse di frutta, il loro teatro di strada per una volta al chiuso, le pile accese in testa, i vestiti di pelle marrone, i volti dipinti come indiani pronti a combattere: sono una schiera di uccelli. Hanno abbandonato la loro città per andare tra gli uomini e qui si dividono in fazioni attorno a due torrette, la loro casa, il confine tra ciò che è ‘famiglia’ e ciò che non lo è. La fatica, la difficoltà di combattimenti, scontri, passi a due sui trampoli aumenta di evoluzione in evoluzione, si reggono su un piede solo, si passano l’un l’altro attorno al corpo, ma sempre con leggerezza, sorridendo. Sono attori, ma anche attrezzisti, mimi, circensi di una guerra che non è mai vinta né persa del tutto.
Dopo l’ultima battaglia, si lanciano dai trampoli e vanno a comporre per terra una mappa muta di bastoni, corazze, ali. È tempo che venga il loro re, Simurgh, la costruzione di qualcosa di gigante che impegna tutti e otto i performer. Appare lassù, da una nebbia color sabbia, la testa del grande uccello, si guarda intorno, ci guarda e dispiega le immense ali.
Rimane lì, in un tempo oltre il tempo, finché non viene deposto e lasciato ad aspettare un’altra evocazione. Come nel poema persiano del XIII secolo Il Verbo degli uccelli, lo spettacolo del Teatro dei Venti è l’asprezza della via, della ricerca che purifica, trasformando chi la compie in guida di se stesso, nel suo proprio Simurgh.
E il ricercare, l’insistere di Terreni Creativi è anch’esso un andare avanti, al di là di ciò che conosciamo, aspettiamo, speriamo. Per questo, perderlo equivarrebbe a smarrire una risorsa in più per essere nel futuro. La nostra parte più importante, quella che ci farà diventare pienamente – e liberamente – noi stessi.
Per approfondire gli altri due giorni del festival:
Francesca Romana Lino, Un Festival che sa affrontare la crisi con coraggio e passione, su Rumor(s)cena.
Giulio Sonno, Qualità e intuito. Terreni Creativi si conferma festival modello, su Paper Street.