LAURA NOVELLI | E’ nata nel ’95 la prima edizione di Luş, concerto-spettacolo con Ermanna Montanari che, assieme a L’isola d’Alcina e Ouverture Alcina, rappresenta un apice di ricerca e sperimentazione vocale impastata di quel dialetto romagnolo nel quale più volte l’eclettica attrice del Teatro delle Albe ha rovistato
con personale maestria, al fine di trasformare la lingua in una tessitura lirica estremamente carnale e sonora. Portando in scena un poemetto di Nevio Spadoni (poeta originario di San Pietro in Vincoli, una frazione di Ravenna poco distante da Campiano, paese natio dell’interprete) e facendolo palpitare grazie all’accompagnamento musicale di Luigi Ceccarelli (alla console elettronica) e Daniele Roccato (al contrabbasso), questo “concerto campianese” è innanzitutto un canto. Un canto ombroso, a tratti fosco, a tratti salmodiante, a tratti ossessivo. Un canto però sempre visionario, antico, ancestrale, in cui si rievoca la figura di una strega vissuta a San Pancrazio di Ravenna a fine ‘800 e qui trasfigurata in Bêlda: veggente che legge nella vita degli altri e che, colma di odio per il prossimo e soprattutto per il prete che le ha disseppellito il cadavere della madre/puttana, cerca di guarirne i mali con rituali e rimedi contadini appresi sin da piccola.
La performance, diretta da Marco Martinelli e proposta in apertura di Short Theatre 2016 nel Giardino di Palazzo Venezia e a La Pelanda qualche sera fa, si è modificata nel tempo ma ha sempre mantenuto intatte la sua potenza e la sua raffinata forza espressiva. Se infatti nella versione iniziale, rimaneggiata più volte e in repertorio fino al 2000 con repliche in vari Paesi europei e negli Stati Uniti, Montanari recitava sospesa in un’imbragatura che le sollevava le gambe e valorizzava il bacino come fulcro di generazione gestuale, adesso la performer è in piedi, per lo più piegata su quelle gambe un tempo sospese e ora invece ben piazzate sul suolo ma aperte, curve, teatralmente “innaturali”.
Sempre elegante nel suo abito bianco svagato ai lati e nei capelli sciolti, tenuti da due fermagli quasi invisibili, Ermanna occupa lo spazio di una piccola pedana quadrata; avvolge tra le mani una lunga corda (una matassa, un filo della vita), si abbassa, si alza, muove la braccia lentamente o all’improvviso mostrando una compostezza giocoforza scomposta, cui si accompagna un encomiabile lavoro vocale. Immergendosi nella sua lingua natia (una “lingua gutturale, ferrosa, scaturita dalla parte sismica di quel sottosuolo bruno, dall’imitazione del gracidare dei ranocchi degli scoli, dalla durezza dei pennati che sbroccano le viti”), ella sembra stipulare patti e alleanze segrete con luoghi, vicende, affetti, ricordi personali. Segue i sussulti della storia attraversando toni, timbri, ritmi diversi e la sua partitura, così ostica eppure così fluida, si combina perfettamente con l’ambiente sonoro dei due ottimi musicisti. Non c’è cesura tra voce e note, tra parola e suono. Ogni elemento è a sé e, al contempo, dentro un unicum compatto e indivisibile che trova i suoi momenti più incisivi nell’Inventiva (“E te / te/ sputa pure tre volte per terra / quando passo alla luce del giorno/ […]”), nel Maleficio contro il prete (vendetta mortifera orchestrata conficcando spilli in un rospo) e nell’epilogo, Luce.
Naturalmente troviamo Carmelo Bene, con la sua phoné monologante, dentro la forza fabulatrice di Bêlda. Ma qui l’impianto vocale/musicale non si regge tanto su una concettualizzazione estetica quanto su un’istintività tutta femminile, nutrita e nutriente. La poesia dialettale di Spadoni diventa perciò essa stessa personaggio, racconto; si fa lingua/carne agita, sudata, vissuta. Anche ad occhi chiusi potremmo vederla nella sua concretezza questa donna brutta, magra, con le gambe storte. Quest’emarginata sofferente e incattivita che tutti additano e allontanano, salvo poi eleggerla a curatrice di ogni male. E proprio per il suo grottesco destino di guaritrice e fattucchiera, ella porta incisi gli stessi segni della diffamazione e dell’esclusione sociale che ritroviamo, ad esempio, nel personaggio di Chiarchiaro de La patente di Pirandello. Ma è soprattutto alla Maria Zanella di Maria Paiato (monologo di Sergio Pierattini scritto nel dialetto del Polesine) che la mia memoria va mentre cerco assonanze e corrispondenze emotive. Perché in fondo anche Bêlda, come la pazza Maria, sopravvive adagiando la sua voce e il suo corpo ai richiami di una ribellione che arriva tardi o a metà o forse mai realmente. Una ribellione contro la solitudine (“mi sento come un aratro arrugginito”, dice ad un certo punto e sembrano versi di Pascoli). Una ribellione contro il buio di un’umanità senza più umanità: “Fuggite, fuggite, finché siete in tempo,/ correte là nelle terre sterminate, / strofinatevi gli occhi / con la guazza del mattino, / strofinatevi, prima di diventare / ciechi del tutto!/ Signore, non ci vuoi più? / Luce, Luce, voglio la luce (“Luş luş / a voi la luş)”.