RENZO FRANCABANDERA | Due eventi recenti ci hanno portato ad incontrare in uno scambio di domande e risposte Andrea Liberovici, artista della musica e dello spettacolo dal vivo.
Il primo è il debutto del suo “Faust’s Box” il 17 settembre alla Philharmonie di Parigi (dal 29 novembre al 4 dicembre allo Stabile di Genova, che co-produce lo spettacolo). Il secondo è il riconoscimento ottenuto con il premio Le Maschere del Teatro nella categoria migliori musiche con la partitura composta per il Macbeth Remix, sempre prodotto dallo Stabile di Genova.
Insomma un momento di grazia per uno dei molti artisti italiani che si occupano di spettacolo dal vivo e che non disdegnano di partecipare e contribuire in funzione cooperativa e ancillare a creazione multidisciplinari (o transdisciplinari come suggerisce il sottotitolo di questa creazione – e non possono che venire in mente qui i grandissimi musicisti, maestri scenografi e light designer che l’Italia ha avuto come co-partecipi di creazioni liriche o teatrali che altrimenti non avrebbero mai avuto il grande successo che poi hanno avuto).
Liberovici ha senz’altro questa sensibilità di creatore di immaginari plurali, verrebbe da dire polifonici. E non a caso, parlando proprio del successo registrato a Parigi per Faust’s Box, una partitura teatrale-sonora affidata all’Ars Nova Ensemble diretto da Philippe Nahon, e di cui è protagonista Helga Davis con Bob Wilson narratore, e di cui Andrea Liberovici firma la regia. Basterebbe la metà di questi ingredienti per incuriosire chiunque. E allora partiamo dal perché e come si arriva ad un’idea come questa.
– Quale momento storico sta vivendo secondo lei il rapporto fra musica e scena? Le forme di dialogo fra il medium e l’arte hanno subito negli ultimi anni grandi evoluzioni, e lei è testimone su più fronti di questo evolvere…
I grandi maestri del ‘900 non ci sono più. Siamo in un momento di sospensione, di ‘respirazione’ in cui si sta cercando. Il ‘900 ci ha lasciato la libertà di fare cose, libertà che è molto difficile da utilizzare. Qui sta il nodo della mia ricerca.
Ciò che vedo, sia nel teatro che nella musica, è che ci sono due grandi macrostrategie: una di ‘restauro’, come se il ‘900 non fosse mai esistito; l’altra è invece il rintanarsi in una nicchia di riferimento: le committenze hanno sempre più bisogno di prodotti specifici per caselle specifiche da riempire. Insomma spesso lavoriamo sulle risposte e non sulle domande: la questione riguarda la politica culturale completamente assente e che deve partire dalla formazione.
Nella mia ricerca, mi interessa quindi capire come utilizzare al meglio la possibilità della libertà, come utilizzare i colori per dipingere quello che voglio. Abbiamo la possibilità di essere libertà, ma c’è un trend generale dominante, e si finisce per non usare la libertà che abbiamo! È antinomico al concetto d’arte prima della globalizzazione. L’arte è sempre stata indagine sull’essere umano, sui suoi pensieri, sogni e desideri. Ora, invece, assistiamo allo spostamento dall’indagine all’intrattenimento. Per questo otto anni fa ho scelto il grande scoglio, in questa società liquida, a cui aggrapparmi: il ‘Faust’ di Goethe che, a mio parere, ha contribuito a costruire l’identità europea. Sono andato contro la tendenza dominante per cercare di raccontare una cosa per riconnettere teatro e musica. Il teatro, non dimentichiamolo, nasce dal suono per cui siamo risaliti all’origine.
– E la sua azione da questo punto di vista come va letta all’interno di questo più ampio muoversi del linguaggio?
La multimedialità è vestire un corpo con tecnologie. La transdisciplinarietà significa invece usare le tecnologie come differenti penne di scrittura di un oggetto. Questo progetto l’ho scritto con più penne: parole, suono, corpo, messainscena. È un corpo unico che costruisco utilizzando insieme questi elementi. Come autore uso queste diverse modalità per costruire i progetti a volte più teatrali, altre più musicali. Questo attuale è quello che mi sembra più equilibrato nei suoi vari ingredienti.
– Come è arrivato a questo esito parigino e come si è sviluppato il progetto?
Il progetto nasce nel 2008, avevo appena messo in scena nel 2005 ‘Urfaust’ con il Teatro Stabile di Genova e lì mi sono preso il virus Faust e ne sono stato intrappolato. In me è iniziata la curiosità ed è arrivata la proposta di un ‘Faust’ di 9 minuti per la Rai “Chi è di scena?”
Un amico, produttore di Bob Wilson, mi suggeri’ di farne una cosa scenica. Mi fece conoscere Helga Davis, grande cantante dalla voce potente. Con lui non proseguì, mentre con Helga abbiamo preso in mano il progetto. All’Apollo Theater di New York, al festival Work-in-progress, Helga ha proposto un primo lavoro ed è stata un’esperienza meravigliosa con feed-back altrettanto strepitosi. Dal direttore del Brookling Rail venne considerata l’opera più innovativa degli ultimi anni newyorkesi.
Abbiamo così continuato a lavorarci cercando produttori a più riprese e con varie pause. Helga è stata impegnata per molto tempo con la tournée mondiale di Einstein on the Beach di Bob Wilson. Abbiamo poi incontrato Ars Nov
a e da lì è nato il progetto su cui lavoriamo dal 2014.
Il debutto alla Philharmonie sabato è andato benissimo: tanti gli applausi forti e sinceri da parte di un pubblico eterogeneo che ha seguito con grande attenzione e tensione e che, stando ai commenti, ha visto uno spettacolo nuovo nella struttura musicale e teatrale profondamente organica tra le sue varie componenti.
– Che valore ha questo particolare episodio nel suo percorso artistico? Ha mai inteso il suo percorso creativo come una sorta di polittico o nel suo confrontarsi con la creazione preferisce vivere ogni momento come un episodio singolo, senza mai interrogarsi sul fatto che ci sia una sorta di comune denominatore?
Sono tanti anni che lavoro. Ho iniziato a 15 anni facendo rock and roll. A 11 anni a Venezia fondai, con pochi altri coetanei, il Movimento dei bambini liberi perché ritenevamo grave che la Biennale fosse vietata ai minori di 18 anni. Ci prendevano e portavano via nel backstage. Questo per dire che ho iniziato presto a riflettere su queste domande, ovviamente anche in modo molto naïf. Faust’s Box è sicuramente una tappa fondamentale perché inizialmente non nasce da alcuna committenza, è stata autoprodotta, poi con questo frammento newyorkese abbiamo avuto la fortuna di trovare la produzione dell’Ars Nova Ensemble francese e del teatro Stabile di Genova. Produzioni che ci hanno lasciato carta bianca a lavorare in assoluta libertà, cosa ormai molto rara. Ho cercato di fare quello che mi sarebbe piaciuto vedere e ascoltare. Ci sono voluti molto tempo e perseveranza. Lo ritengo una sorta di prototipo del mio modo di lavorare che vorrei continuare ad applicare ad altri progetti futuri.
– Lei come vive il rapporto con la creazione? Si è mai sentito artista nel vivo delle sue sicurezze o solo (se solo si può dire) un allegro artigiano che fa finta di non aver paura del momento pubblico?
L’artista è qualcuno che ha lo scopo di cambiare il mondo creandone di nuovi con le sue opere perché quello che ha davanti non gli piace. Ma l’artista senza artigianato non crea nulla. Anche gli artigiani cambiano in meglio il loro mondo. L’artigiano senza questa visione più ampia non può chiamarsi tale. Artista e artigiano sono per me quindi la stessa cosa. Non c’è artista senza artigianato e l’artigianato non può esserci senza arte. Personalmente, non mi sento né l’uno né l’altro, ma entrambe le cose…quando va bene.
– Musica e tecnologia. Sono sorelle, sorellastre o non dovrebbero avvicinarsi se non con moderazione? Quanto è sostituibile l’umano dal tecnologico, retorica e sentimento a parte?
La tecnologia applicata alla musica è un nuovo strumento musicale. La nascita del pianoforte, strumento ad altissima tecnologia, ha cambiato il modo di comporre. L’ha ampliato. Stessa cosa per tutti i nuovi strumenti tecnologici applicati all’elaborazione del suono. Ma gli strumenti, di per sè, sono vuoti, bisogna vedere come si crea. Il punto è sempre quello: cosa mi muove al loro utilizzo e quali sono le mie competenze nell’utilizzarli, ossia artigianato e visione. Mi dà fastidio quando si investono le tecnologie/strumenti di significato culturale (una lavatrice è una lavatrice ma non è che vedo Dio quando gira il cestello). Quando dò il potere ad uno smartphone di diventare la protesi del mio immaginario…io divento molto meno “smart”.
Faust’s Box
A transdisciplinary journey
musica, testo e regia Andrea Liberovici
voce Helga Davis
direzione Philippe Nahon
con Ars Nova ensemble instrumental (7 musicisti)
narratore nell’Ombra (registrato) Bob Wilson
ghost writer (registrato) Ennio Ranabaldo
ombre in video Controluce Teatro d’Ombre
produzione Ars Nova ensemble instrumental
coproduzione Teatro del Suono / TAP Théậtre Auditorium de Poiters / Teatro Stabile di Genova