RENZO FRANCABANDERA | Il Piccolo Teatro è il palcoscenico di prestigio su cui da alcuni anni si alternano le proposte che Angela Calicchio e la direzione artistica di Outis seleziona per dare, con la rassegna settembrina Tramedautore, un quadro il più possibile completo delle dinamiche della nuova drammaturgia fuori dai confini nazionali.
Dieci gli spettacoli andati in scena in questa edizione fra mise en espace, reading e allestimenti veri e propri, diversi in prima assoluta, dei più interessanti drammaturghi (europei in questa edizione, dopo carrellate che ci hanno portato negli anni passati in giro per il mondo).
Il focus 2016 è stato sul nord Europa, partendo dal norvegese Jon Fosse con una produzione del Den Norske Teatret e del Festival Quartieri dell’arte di Viterbo, al norvegese Jon Jesper Halle rivisto in chiave italiana da Joele Anastasi, da Gian Maria Cervo con un interessante esperimento sul romanzo di Andrea Camilleri, al macedone Dejan Dukovki e il suo black humor, fino ad arrivare al tedesco Philipp Löhle nel suo rovesciamento dell’idea di Germania “felice”.
Un puntatore concettualmente simile, quest’ultimo, a quello utilizzato da VicoQuartoMazzini per la loro Little Europa, rilettura contemporanea de Il piccolo Eyolf di Henrik Ibsen. La trama pretesto è quella di un bimbo che diviene storpio per colpa della negligenza dei genitori. Qui la trasposizione che ne fa Gabriele Paolocà nel ripensamento drammaturgico è appunto che la creatura deforme (Europa) sia figlia della ricca opulenza isterica di una lei cocainomane (il Nord Europa) e della assenza meridionale e caciarona di un lui emigrato e frustrato (il Sud Europa); Interpretato da Michele Altamura, Gemma Carbone, Gabriele Paolocà, Maria Teresa Tanzarella in un interno pensato da Alessandro Ratti, la recita (che fruiamo in inglese con sovratitoli e voce narrante del mitico Tage Larsen/Odin Teatret) spinge su una rilettura caustica della dinamica dei piccoli egoismi dell’Europa contemporanea, con una Mary Poppins tedesca che diventa presto una severissima signorina Rottenmeier, e così ogni personaggio deflagra nella sua egoistica dimensione parossistica, così come paiono fare i diversi stati componenti il vecchio continente con L’ Unione allo sfascio specie dopo la Brexit.
Facile pronosticare quindi un ritorno alla preistorica e barbara animalità, rappresentata da un Tirannosauro che appare in scena nel finale, sulle macerie, in un caos scenico tipico degli allestimenti nord europei, di cui qui e lì si respira il gusto. Sarà dunque un Tiranno, un dittatore figlio della pancia di un continente affamato ma incapace di mangiare, quello a cui andiamo incontro? In ogni caso lo spettacolo nasce da un’idea interessante di trasposizione di uno dei testi forse meno noti di Ibsen, ma si chiude sull’idea dell’Europa-Eyolf che soccombe all’egoismo di chi dovrebbe prendersene cura, per affogare in una lettura a tratti stereotipata delle specificità nazionali dove, al di là delle generose prove d’attore dei giovani protagonisti, si avverte però la mancanza del confronto delle suggestioni creative interne con un dramaturg e una regia esterna, capaci di scelte ulteriori e di uno scarto poetico rispetto all’idea originaria, questione che a questo punto del percorso artistico appare la maggior necessità della compagnia per fare il dovuto salto nei prossimi lavori.
Meno rischioso nell’idea, ma più rodato nel linguaggio fra narrazione e specifico recitativo dell’interprete, il monologo che Andrea Cosentino, con la regia di Luca Ricci, ricava dal romanzo di esordio dell’autrice orvietana Rosa Matteucci, che racconta la storia di un pellegrinaggio nella città di Lourdes da parte di Maria Angulema che, come quelle dame della carità di un tempo, porta un gruppo di anziani a venerare la Madonna, alla ricerca di improbabili miracoli, che vanno dal superamento di una vita claudicante fisicamente (degli anziani) a quello di una vita claudicante emotivamente e sentimentalmente (come quella della protagonista). L’interprete sembra sempre in uno spogliatoio, che potrebbe essere quello delle piscine di Lourdes o quello di un teatro nel teatro, una finzione su cui il recitativo di Cosentino gioca da sempre e su cui la regia ovviamente calca, per delimitare uno spazio concettuale che vada oltre il testo. Un tentativo che si appoggia anche all’idea di un’interlocuzione fra parola, colorita e popolare, e musica, grazie agli intermezzi sonori (molto aeriformi e zen) affidati agli strumenti non convenzionali di Danila Massimi.
Lui, Cosentino, a sinistra della scena con la sedia e il suo casereccio e poco erotico spogliarsi e vestirsi da suorina, la musicista a destra, fuori dal palco sul palco che fa da scena allo spettacolo con luci di un freddo azzurro, a definire un contrappunto tutto est-asiatico, lontanissimo dal dialetto da centr’Italia con cui Maria Angulema racconta il suo personaggio, fra fetori senescenti e frittate alla cipolla sulla spiaggia, nel lungo flashback che è la drammaturgia, con la protagonista, Maria che, pronta ad entrare nelle piscine di Lourdes per il bagno purificatorio, snocciola un monologo fra sacro e profano come di una Molly Bloom della Tuscia.
Al di là del tono ironico della narrazione, questo testo è molto nel tracciato e nelle corde di Andrea Cosentino, con il tipico intreccio di memoria soggettiva e affresco sociale piccolo borghese. Insomma uno di quei colpi che l’interprete non sbaglia, un gol fatto, che infatti ha vinto l’edizione passata della rassegna I teatri del sacro.
Proprio per questo, con curiosità, guardiamo l’azione svolgersi come da copione, e la palla entrare immancabilmente in rete; eppure qualcosa ci manca, sia nel dialogo fra musica e parola (anche ove il tema fosse la contrapposizione fra l’etereo e l’umano), sia nel tentativo di portare Cosentino oltre Cosentino.
Un’operazione difficile ma che forse farebbe un grande regalo al teatro, uscendo dall’area di comfort già ampiamente indagata, per cercare anche nuove strade.