RENZO FRANCABANDERA |“Preferirei essere negro piuttosto che gay. Perché se sei negro non lo devi dire a tua madre”, sosteneva Charles Pierce. E’ stato uno dei più importanti imitatori e drag del secolo scorso, un pioniere per le drag queen, divenuto celebre per le sue imitazioni di Bette Davis. Dicevano di lui che somigliasse a Joan Collins più di Joan Collins stessa.
Sicuramente, fosse nato in Italia e avesse avuto la stessa disgraziata idea di fare l’attore, sarebbe finito, ai giorni nostri, per passare in qualche rassegna pre-stagionale dedicata al teatro omosessuale o a tematica gender, per essere politically correct, cosa che non vogliamo.
Nel tempo, infatti, da rassegne di teatro omosessuale sono divenute rassegne LGBT. Prima ancora che il grande pubblico con fatica e non senza qualche approssimazione tassonomica familiarizzasse con queste quattro lettere fatidiche per la cultura di genere, e che stanno per Lesbian, Gay, Bisexual, Transsexual, ecco che già se ne aggiungono altre, trasformando l’acronimo in LGBTQIA (Lesbian, Gay, Bisexual, Transsexual, Queer, Intersex, Asexual).
La chiesa cattolica condanna tutto questo alfabeto senza distinzioni, sia chiaro.
Il mondo dell’arte ha sempre avuto nella sensibilità di genere un polmone naturale per consentire la libera espressione, anche in anni in cui l’accettazione della cultura del gender, una tragedia di portata analoga a quella di “una guerra mondiale” per il matrimonio, per dirla con Papa Francesco, era utopica.
A teatro, ancora con fatica, si accetta che si parli di e attraverso il corpo, specie se con manifestazioni più cariche e simbolicamente (oltre che fattualmente) “estreme”, che potremmo sinteticamente ascrivere alla voce “esibizioni di ricchionismo“.
Come non ricordare infatti questa mirabile definizione, regalataci da Domenico Modugno in un’intervista a Claudio Sabelli Fioretti pubblicata sulla rivista Sette il 10 settembre 1991, allorquando ebbe a sostenere, anziano ma ancora pugnace: “Non è che io sia razzista nei confronti dei pederasti. Però questa esibizione di ricchionismo dappertutto mi rompe cordialmente le palle. Mi disturba questo buttare in faccia a tutti i costi che io e te siamo uguali. No, non siamo uguali. Io non sono uguale al frociaccio che esibisce il suo ricchionismo. La tua checchieria io la sopporto e la rispetto. Ma non devi esibirla ad oltranza e mettermi in imbarazzo. Non siamo uguali. A me piacciono le donne e a te gli uomini. E le lesbiche poi? Dio come mi stanno… lo scriva, lo scriva”.
Avremo deluso coloro che lo ricordavano più romanticamente, proprio lui che con Cosa sono le nuvole aveva regalato le note e le parole per il finale di uno dei film più belli di Pasolini, mentre nella parte del netturbino portava via i burattini di Otello e Iago, impersonati da Ninetto Davoli e Totò.
Ecco, in Italia, a teatro, queste “esibizioni” trovano spazio, e anzi, negli ultimi anni sono diventate persino oggetto di rassegne assai popolate dal pubblico, con incontri, drammaturgie tematiche, curatori. Insomma una cultura che (pur facendo spavento ad alcuni, come si è capito) si muove, vive, resiste e moltiplica le occasioni di incontro. Da Garofano Verde a Roma a Gender Bender a Bologna, passando per Illecite//Visioni o Liberi Amori a Milano, dove peraltro presso l’Atir Ringhiera esiste un centro attivo di promozione e studio del linguaggio scenico legato alle tematiche di genere, l’Italia del teatro pullula di rassegne gay, tanto che ci si chiede cosa ne sarebbe se non ci fossero più. Illecite//Visioni (a Milano dal 12 al 16 ottobre) ha toccato in questi 5 anni i 10.000 spettatori, un numero incredibile per un teatro. Promossa dal Teatro Filodrammatici di Milano con l’intento di diffondere, attraverso lo strumento teatrale, conoscenza ed inclusione, vede la Direzione Artistica affidata a Mario Cervio Gualersi, che la gestisce in totale autonomia rispetto alla direzione del Teatro stesso.
Abbiamo, tuttavia, chiesto ad uno dei due Direttori Artistici del Teatro Filodrammatici, Bruno Fornasari (che governa in diarchia con Tommaso Amadio), che ospita nella sua struttura l’evento, cosa ritiene dell’opportunità di promuoverne e sostenerne uno. “È infatti importante sapere che Illecite visioni non è solo un’ospitalità – ci dice – perché l’iniziativa di un festival, professionale, a tematica LGBTQIA, qui a Milano è nata dal Filodrammatici e col Filodrammatici”.
E che fine farà il teatro italiano quando spariranno le rassegne di teatro gay, gli chiediamo.
“Il teatro, già di per sé entità fragile, senza un festival LGBTQIA sarebbe uno specchio rotto. Come Shakespeare gridava ai suoi attori, “siate specchio della realtà”, così crediamo che dar spazio a creazioni sceniche legate a temi poco trattati, perché scomodi o di non immediata comprensione, sia necessario per ricomporre tutti i cocci di uno specchio fondamentale come quello del teatro, luogo in cui le persone da sempre si riuniscono per “riflettere” su gioie e dolori della complessità del vivere. Sarebbe un peccato perdere prospettive così preziose e poi, chi lo vorrebbe uno specchio rotto e tutti quegli anni di sfortuna?”
Specchio, specchio delle mie brame, ma chi è il curatore di rassegne omo più tenace del reame? Beh, non sappiamo se è IL più, ma Rodolfo di Giammarco a Roma con Garofano Verde, giunto alla 23esima edizione quest’anno a Settembre, è sicuramente un navigatore di lungo corso. Allora lui deve saperlo per forza come si fa a fare a meno di tutto questo.
Come si fa Rodolfo, diccelo, e non solo teoricamente, ma anche praticamente. Si può?
“Allora, Teoricamente: se non ci fossero più le rassegne di teatro gay, e l’abolizione rispondesse a una pacifica condizione sociale-etica, il teatro italiano ne guadagnerebbe in dignità e in testimonianza di raggiunta libertà di costumi, e questo venir meno di una tematica scenica sarebbe finalmente il netto segnale d’una scomparsa delle discriminazioni, degli steccati, dei pregiudizi. Una pura ipotesi.
Praticamente: le cronache di tutti i giorni, le divisioni politico-istituzionali in merito ai diritti degli omosessuali, le inculture sui gay ancora diffusissime in una parte consistente della popolazione, legittimano tutt’ora una sezione di spettacoli che riflessivamente tratti le emozioni, le incomprensioni, le fenomenologie di chi ha una sensibilità non (chiedo scusa per il brutto termine) normo-orientata.
Teatralmente: il Garofano Verde è riuscito a dare senso a testi storici del ‘900 fondati su una drammaturgia omosessuale, ha stimolato una scrittura inedita motivata da nuovi aspetti dell’appartenenza gay, ha convinto vari artisti a fare una sorta di outing scenico (e, ad esempio, un teatrante come Pippo Delbono ha portato ovunque all’estero un lavoro su di sé nato nella rassegna, in quattro lingue), e ora sta favorendo imprese che vengono recepite in tutte le sale italiane.
Civilmente: visto che da tre anni il teatro pubblico degli enti locali ha decretato la fine di ogni sostegno (dopo venti edizioni assistite) al Garofano Verde, si è creato un sistema più umano, più indipendente e più solidale perché la manifestazione esista, e il teatro italiano non ne faccia a meno: c’è chi offre uno spazio dove agire (il Teatro di Roma), ci sono artisti che contribuiscono con idee, allestimenti e recite a spese proprie (vari bei nomi), e c’è chi si adopera affinché l’appuntamento resista, ci sia.”
Ce ne libereremo mai? E quand’anche fosse, saremmo liberati, e quindi più liberi, o meno?