RENZO FRANCABANDERA | La storia della letteratura e quella del teatro hanno sempre vissuto le rivendicazioni dei diritti delle donne come vere e proprie pietre miliari per il ragionamento su questioni apicali della società. Questo è valso sia quando la rivendicazione assumeva solo il carattere del capriccio esistenziale, come nel caso di Madame Bovary, sia come avvio o spunto creativo per veri e propri generi letterari, come il flusso di coscienza e il monologo di Molly Bloom, per una femminilità contemporanea capace di narrarsi in un intimità fino a quel momento sconosciuta e sconvolgente. A questo seguirà poi Virginia Wolf e molti altri, fino alla più teatrale Sarah Kane, e alcune interessanti declinazioni italiane di cui diremo.

Tornando a teatro, dall’irriverente Lysistrata aristofaneo, cagione della parte più colorita del nostro titolo, fino a Casa di bambola, per non parlare dell’attualissimo Alla mia età mi nascondo ancora per fumare (della drammaturga algerina Rayhana, su un gruppo di donne chiuse in un hammam per difendere le scelte fuori dal canone sociale di una di loro), la rivendicazione dei diritti e l’affermazione di sé della donna, anche nella sua dinamica erotica o nella sua sfera sessuale, ha dato luogo a creazioni artistiche che sono diventate pietre miliari del rapporto fra individuo e società, decretando molto spesso il successo di testi, registi, attori. Serena Sinigaglia (regista di Alla mia età…) e Giuliana Musso, fra le altre, hanno praticamente inteso indirizzare in modo precipuo la loro attività artistica a questo.

Se guardiamo in modo veloce all’Italia oltre le due registe, nell’ultimo decennio, da Rumore rosa dei Motus a L’origine del mondo di Lucia Calamaro, passando per il Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni di Deflorian-Tagliarini, per finire con Sorry Boys di Marta Cuscunà, sono molti gli spettacoli creati da donne (sole o in collaborazione, ma spesso sole) sulle donne, e che hanno raccontato in modo particolarissimo il nostro tempo.

Eppure, fra questi spettacoli nominati, gli ultimi due sono fra i pochi a sviluppare una drammaturgia in cui la donna decide.

Più frequente è il caso dell’indecisione, quella sospensione permeata di fare quotidiano che Lucia Calamaro, ad esempio, è così brava a raccontare, in una forma ibrida fra diario di viaggio nei pensieri, monologo della vagina, confessione, racconto del cuscino. È vero, si farà notare, che questo avviene anche nella società, dove il gran numero delle posizioni apicali è appannaggio degli uomini. Vero. Ma ci piace anche riflettere sul ruolo della donna che spesso è motore immobile degli eventi, e non solo biologicamente. Su questo Shakespeare non ci ha fatto davvero mancare alcun ritratto di femminilità possibile: dalla crudele e decisoria, alla fragile ed eterea, dalla fedele e buona, alla traditrice senza scrupoli. Bastano semplicemente gli aggettivi per portarcele alla mente. Che potenza evocativa, il Bardo, ma anche che capacità di descrizione del processo teleologico! Per ciascuno di questi personaggi capiamo profondamente il motivo delle loro scelte presenti ma anche la direzione di lungo periodo.

Ci piace, allora, cogliere il pretesto di aver assistito a Sorry boys nelle recenti repliche all’interno di Città balena, la rassegna a Teatro i di Milano sulla nuova scena italiana, per qualche ragionamento, necessariamente sintetico, che ripercorra velocemente  i fili che collegano questo spettacolo ad altre opere che affrontano il tema della scelta delle donne.

Assistendo a Sorry Boys, l’ultima creazione della talentuosa interprete della scena italiana che spesso si accompagna ed esprime la sua arte attraverso burattini e medium ulteriori, è impossibile non andare con la mente proprio al Lysistrata di Aristofane, ma anche ad un’opera d’arte contemporanea che i milanesi hanno sotto gli occhi da alcuni mesi, negli spazi di Fondazione Prada, ovvero Five Car Stud dell’artista Edward Kienholz.
La trama è una vicenda tutta americana, realmente accaduta e racconta di un gruppo di ragazze che decidono di rimanere incinte tutte insieme per dar vita ad una sorta di giovane comune al femminile dalla quale restano esclusi gli uomini. Decidono di tenersi i loro figli che hanno cercato in modo quasi meccanico, per poi crescerli in uno spazio familiare modello albero di Antonia (il “non ve li diamo” del nostro titolo).
La parte più interessante di Sorry Boys è infatti la struttura, analoga a quella proposta nelle due opere di Aristofane e Kienholz, ma con modalità opposta sia nella drammaturgia che nel punto focale. In genere infatti sono le protagoniste stesse che raccontano se stesse. Qui questo avviene solo in parte ed in forma anche criptica, con una chat su smartphone, mentre il resto degli eventi è narrato da osservatori esterni (bellissime le maschere iperrealiste di Paola Villani).

Questo impatta anche sulla trama, che ha una dinamica completamente immersiva, a differenza ad esempio di Ce ne andiamo… dove come spesso nei lavori di Deflorian, il gioco del teatro è entrare e uscire dalla trama, fra narrazione, sottotesto, disvelamento del gioco scenico.

Qui invece la scelta appare simile a quella compiuta in Five Car Stud da Edward Kienholz  (opera esposta per la prima volta a documenta 5 a Kassel, curata da Harald Szeemann). L’opera riproduce in dimensioni reali una scena di violenza razziale. Occupa uno spazio enorme, un quadrato di forse 20 x 20 metri, completamente cosparsi di sabbia e terriccio, con alcune macchine parcheggiate con i fari accesi che illuminano il centro della scena dove avviene una tortura da parte di un gruppo di uomini bianchi mascherati che evira un nero (vicenda anche questa realmente accaduta, con la vittima che aveva precedentemente provato ad avere una relazione sentimentale con una ragazza bianca della comunità).

kienholz-5-car.jpg

Anche qui tutto è verosimile ma, a differenza che nella creazione della Cuscunà, lo spettatore ha modo di variare il punto di vista, decidere di volta in volta su quale particolare fermare lo sguardo e l’attenzione, anche se i fanali delle macchine illuminano la scena della tortura. Una possibilità che Sorry Boys invece ci nega e che alla lunga forse penalizza la drammaturgia e l’esito scenico stesso. Forse perché ogni fenomeno, narrato solo dall’esterno e dove la voce di chi vive l’esperienza resta pressoché muta, dopo un certo tempo smorza la sua potenza anche dove l’intento sia quello di descrivere il contesto, la società in cui le scelte maturano, i perché. La stessa opera di Kienholz, nella sua silenziosa e caravaggesca teatralità, ci spiega come tutte le macchine che illuminano con i loro fari siano a loro volta abitate e vissute da altri personaggi (quelli a cui la Cuscunà nel suo spettacolo dà voce, in sostanza), in modo che il focus del fruitore sia libero di vagare fra fenomeno osservato e sguardo dell’osservatore intermedio, ulteriore rispetto al pubblico. Chi entra nell’installazione, osserva anche coloro che osservano. Lo sguardo dello spettatore di Sorry Boys, invece, viene portato quasi esclusivamente su coloro che osservano, che infatti sono gli unici cui è dedicata una maschera.

Questo è un processo contrario rispetto a quello di Wolf, Kane, per esempio, o Calamaro, che portano l’attenzione sul fenomeno psicologico in modo ugualmente immersivo ma diretto sul soggetto, favorendo così la leggibilità delle cause del sistema di scelte individuali, comunque riferibili in seconda battuta ad un contesto esterno, da cui non sono avulse.

Schermata 07-2457228 alle 20.14.13.png

E questo, in fondo, ci dice alcune cose fondamentali sui processi di narrazione delle scelte collettive:

In primis, che sempre le moltitudini si compongono di singoli, e che a teatro come pure nella vita, ascoltare il coro è più difficile che ascoltare i singoli, specie se il coro non è armonico. Per questo la figura del coro ha avuto a teatro una vita relativamente breve. La massa, anche dove drammaturgicamente distinta, dopo poco diventa faticosa da seguire, specie se è massa che osserva e non è protagonista. È, ad esempio, l’escamotage di sceneggiatura utilizzato in Suffragette, il film di Sarah Gavron sui tumulti in Gran Bretagna per il diritto di voto. Pur essendo il film fortemente focalizzato su questioni collettive, la scelta drammaturgica è di eleggere soggetti, nel gran numero, portatori di storie individuali, capaci poi di riportarsi nella dimensione collettiva.

In secondo luogo, rimarca la necessità di spiegare profondamente i motivi delle scelte anche di chi è protagonista narrato, del falso complemento oggetto. Qui la scelta della artista friulana è più centrata sull’esperienza della maternità, e questo è indubbio; meno chiaro invece il progetto successivo di queste giovani, che culmina in una loro fuga verso non si sa dove, mentre forse questa parte era componente ugualmente centrale della loro scelta, cui dedicare forse un’attenzione non minore rispetto a quella sui giovani perdigiorno della profonda periferia americana.
Il dove della fuga è, ad esempio, il centro di Ce ne andiamo…, ma anche di Lysistrata. E’ il perché ultimo, l’intenzione sul futuro, quello che trasporta chi è in sala dal presente dei fatti al poetico delle utopie, punto questo che in Sorry boys un po’ ci è sfuggito, e che sicuramente non si fermava al nono mese di gravidanza, anzi forse lì cominciava.