RENZO FRANCABANDERA | Dal 1993 in un sottoscala in zona Porta Romana; Milano Sud, embleticamente dall’altro lato della strada rispetto al Franco Parenti: come a dire l’albergone con piscina e l’osteria popolare.
Il clima di luogo ospitale e l’ingresso con mobilio vintage, il pianoforte messo lì mentre qualcuno beve un bicchiere di vino, il piccolissimo foyer con la vecchia poltrona da barbiere. E lui immancabilmente sulla soglia della porta a fumare con qualche spettatore, in fondo alle scale, prima di varcare la soglia, che scambia sorrisi e sguardi compiaciuti con Sabrina Faroldi e Micaela Brignone, le storiche compagne di viaggio. Questa l’atmosfera del teatro della Contraddizione a Milano.
In una festa partecipata, ieri, il teatro ha festeggiato i 25 anni di attività, di follia metropolitana frutto di un gruppo di poche persone, della tenacia, e della passione con cui negli anni sono riusciti a coinvolgere nelle loro quasi donchisciottesche e romantiche lotte per la sopravvivenza artisti internazionali, la nuova scena italiana, la cultura underground milanese, fino a diventare negli ultimi anni un vero e proprio fenomeno, con forme di coinvolgimento sociale nell’arte, come la balera poetica Balerhaus e il festival di cultura metropolitana Ex Polis: cose molto amate dei cittadini, frequentatori e spettatori delle proposte succedutesi.
Fra queste Die Privilergierten, spettacolo per 30 spettatori per volta in cui era ricostruito l’ambiente del famoso lager di Theresienstadt, che i tedeschi avevano ideato come campo di concentramento di facciata per superare i controlli degli organismi di controllo internazionale. Una creazione crudele e affascinante che nel 2009 vinse il premio come miglior spettacolo a Milano, deciso dalla giuria popolare. L’inizio di un’ascesa fortunata di pubblico e vicinanze della città.
Marco, ma dopo 25 anni hai capito perché hai fatto tutto questo? E quanto, meriti soggettivi a parte, è giusto dire hai e quanto avete? Insomma chi siete voi?
Molte volte ho pensato di conoscere le risposte ma erano parziali. Abbiamo vissuto a spirale: dalla ricerca di una ragione di vita, alla ricerca di un linguaggio per comunicarla, alla ricerca di compagni per condividerla o discuterla, alla ricerca dello straniero che non sa niente di te e viene con le sue ragioni. Chi siamo? In questo momento siamo Marco Maria Linzi, Sabrina Faroldi, Micaela Brignone, Stefano Slokovic, Giulia Soleri, Stefania Barina, gli attori che collaborano da anni con noi come Eugenio Vaccaro, Stefania Apuzzo e molti altri a cui cerchiamo di dare una casa artistica.
In questi anni il teatro ha attraversato con voi diverse fasi, dalla idea, alla crescita, fino alla vera e propria esplosione di questi ultimi 5 anni. Cosa è successo? Perché proprio ora?
Sicuramente c’è stato al TdC un processo di trasformazione dalla necessità individuale alla necessità comune. In particolare, l’apertura delle pratiche di relazione con il pubblico, iniziata a fine anni ‘90, si è realizzata con più forza negli scorsi 3 anni grazie a un bando di Fondazione Cariplo che ha moltiplicato le risorse, dando respiro al nostro quotidiano e strumenti alla nostra vocazione di centro di ricerca indipendente. Grazie a queste risorse sono nati i Formati D’arte – Milano Calling prima e Balerhaus ora – che avvicinano al teatro un pubblico nuovo senza cedere di un centimetro alla qualità artistica. Coinvolgere altre compagnie in questi esperimenti è stato decisivo: Sanpapie ha dato vita con noi a Balerhaus con risultati impensabili. Con il festival e il bando Expolis sollecitiamo un nuovo rapporto con la città, fornendo mezzi organizzativi e economici per affrontare questo percorso di ricerca. Ciò non dimostra che siamo bravi, ma che molte realtà sarebbero pronte a rivitalizzare il mondo del teatro, se solo avessero i mezzi per farlo.
Siete cambiati anche voi nel capire meglio come operatori culturali cosa la città si aspettava da voi o siete rimasti duri e puri? Esiste ancora nella tua mente un concetto di dura purezza o preferisci una flessibile impurità? E la città come risponde a questo?
Passiamo un po’ per quelli duri e puri ma dipende dal contesto; l’importante è non pretenderlo dagli altri. Se poi parliamo di linguaggi dell’arte, il duro e puro è quasi una bestemmia per noi. Credo nella compresenza degli opposti, poli generativi anziché stati immutabili. Secondo me c’è un forte desiderio di comunità nella nostra città e credo sia parte delle funzioni dell’arte appagarlo. Quando accade, la risposta è forte ed emozionante.
Un paio di aneddoti di quelli che il pubblico non conosce, di backstage? Chi sono gli artisti a cui in questi anni ti sei più legato, fosse anche per una sera?
Nello spettacolo Die Privilegierten, tra un’edizione e l’altra, una delle attrici è rimasta incinta. Abbiamo deciso insieme di cambiare la drammaturgia per inserire la neonata. Per il pubblico è stato un elemento molto forte. Quello che non potevano vedere erano le improvvisazioni che nascevano per portarla fuori scena quando impestava l’aria del Cabaret… Per anni abbiamo ospitato compagnie Europee, soprattutto inglesi, e credo che nessuno sappia che nel nostro teatro è passato per due anni Benedict Cumberbatch, ora star Hollywoodiana.
Abbiamo amato tutti, perché per noi scegliere uno spettacolo non è una cosa da prendersi alla leggera. Ne cito alcuni che hanno abitato per più anni il tdc, che qualcosa vorrà dire: Rosario Palazzolo, Massimiliano Loizzi, Andrea Cosentino, Linda Marlowe, Alister O’loughlin e Miranda Enderson, Scimmie nude, Astorri e Tintinelli, Sandrine Barciet, Ister theatre, Chris White, Julio Maria Martino, Phoebe Zeitgeist, Odema, Sanpapiè, TeatrInGestAzione.
A fare questa vita ci si sente più illusi o rivoluzionari?
L’una senza l’altra non funziona.
Non ti stanca entrare ogni giorno della tua vita nel sottoscala? Hai mai sognato un teatro al piano terra?
No, l’abbiamo scelto. Abbiamo reso uno spazio da privato a pubblico senza l’aiuto di nessuno. Di solito accade l’opposto: i teatri diventano spazi commerciali soprattutto se sono centrali come il nostro. E’ stata la suggestione giusta per noi: un sottoscala vicino alla terra è il posto adatto per ridere della vita o chiedersi a cosa serva. In un teatro piccolo accadono cose che sono impossibili nei grandi teatri. Il sogno è restare nel sottoscala ma trovare le finanze per renderlo ancora più fruibile, con spazi più ampi dedicati all’accoglienza.
In due parole l’arte di cui il Teatro della Contraddizione si fa promotore è…
L’arte che alla qualità unisce l’urgenza, che si prende la responsabilità della propria visione; un’arte che non pretende di educarti ma prova a metterti nelle condizioni di pensare da solo, di sviluppare un’attitudine critica, rendere il fruitore avvertito. E quando sei avvertito sta a te decidere.