RENZO FRANCABANDERA | Coreografa, danzatrice e performer bolognese, Simona Bertozzi è una delle figure più significative ed attive del panorama della danza contemporanea indipendente in Italia. Da anni i suoi progetti centrati sul corpo, la sua meccanica e il suo diventare simbolo vivo, girano e finalmente incontrano il grande pubblico. E’ dal 2005 che la Bertozzi conduce un percorso autoriale di ricerca e scrittura coreografica, creando lavori, in forma solistica e con diversi gruppi di danzatori e performer, e nel 2008 ha fondato la Compagnia Simona Bertozzi/Nexus.
Alla Biennale Danza Venezia 2014 ha presentato Guardare ad altezza d’erba, creazione per un sestetto di danzatori tra i 10 e i 12 anni, co-prodotta da Biennale di Venezia e Teatro Stabile dell’Umbria e nello stesso anno debutta Animali senza Favola. Per il biennio 2015/16 l’attività di produzione si è concentrata nel Progetto Prometeo, attraverso la creazione di episodi, quadri di coreografia di durata variabile, ognuno con il proprio assunto tematico e segno coreografico, nonché il rispettivo nucleo di interpreti. Sono tre gli episodi creati nel 2015: Prometeo: Contemplazione, Prometeo: Il Dono, Prometeo: Poesia.
Il 2016 è l’anno di completamento con i tre nuovi episodi:Prometeo: Astronomia, Prometeo: Architettura e un quadro conclusivo dal titolo And it burns, burns, burns.
Abbiamo intervistato Simona Bertozzi.
Quale momento storico sta vivendo secondo te il rapporto fra corpo e danza?
Mi pare ci sia un bel frastuono rivolto al corpo e alla necessità di farne territorio di indagine, di lotta, di autoaffermazione. Un’eredità, questa, che sopraggiunge da ben note avanguardie ed è attualizzata alla luce della nostra contemporaneità. La danza e la costruzione del linguaggio del corpo sulla scena ne risentono. Mi sembra che a volte la tendenza alla post produzione e alla proposta di dispositivi, modelli e cliché (più o m8ujn eno trendy), prevalga sulla consapevolezza anatomica e sulla sua ricaduta nella composizione del movimento. Per anatomia intendo quella vibrazione di natura che, se riverberata e ri-generata nel tessuto del gesto, dell’agire corporeo e dunque nella danza, contiene in sé “biografie”, “gender” e “contestazioni” più o meno radicali.
E la tua azione da questo punto di vista come va letta all’interno di questo più ampio muoversi del linguaggio?
Non scelgo un dispositivo come immediato rimando del costrutto coreografico: sono rivolta a una dimensione evocativa del gesto/dell’azione. Non risolvo l’aspettativa di una didascalia e di una narrazione formale, cerco di incastonare la mia danza in un dialogo sempre aperto con “un prima e un dopo”, con una provenienza e con la sua proiezione: un impatto, un’incorporazione e una via di fuga. Dalla composizione del movimento, che avviene per intercettazione di vettori e espulsione di tensioni, alla struttura coreografica, che è grammatica su mappa spaziale, ripetibile, immagino il corpo come un tessuto connettivo, in grado di ri-negoziare ogni volta la propria relazione con il volume dell’aria, del suono, della luce. In questa direzione provo ad allontanarmi da una danza che si tinga di autobiografismo, per tendere una linea tra animalità e sostanza universale del gesto.
Come sei arrivata al progetto Prometeo e come si va sviluppando?
Il primo progetto a episodi a cui ho lavorato è stato Homo ludens (2009 al 2012) in cui ho affrontato le quattro categorie ludiche individuate da Roger Callois: Ilinx, Agon, Alea, Mimicry. In quella occasione per la prima volta ho fatto dialogare la mia ricerca con un percorso di trasmissione verso altri corpi, nelle singolarità e nel loro ingaggio corale. Dallo schema ludico sono approdata a una dimensione più animale, ancestrale, incontrando la Zambrano e la sua opera Chiari del bosco, con in un lavoro per cinque donne di età diverse dal titolo Animali senza favola (2014). Il Prometeo è arrivato nel flusso oramai totalmente espanso di questa ricerca attorno alla technè quale territorio per una grammatica generativa, attorno alla sua trasmissione: nel segno dei corpi, adolescenti e maturi, e nella complessità del loro darsi alla danza. Il libretto del Prometeo di Salvatore Vigano, come riportato nell’opera curata da Stefano Tomassini, è stato il riferimento teorico per l’ossatura del progetto e la scansione in sei episodi.
Parliamo di questo ultimo atto. Che valore ha questo particolare episodio nel polittico e quanto sarà importante riuscire a vedere l’opera come un unicum. E’ questo il tuo intendimento, o vivi gli atti come parti singole, pur nate da una comune ispirazione?
Ogni quadro ha il suo grado di cromia, temperatura, luce e ombra, segno coreografico, età e tipologia di presenze e può sostenersi autonomamente, depositando il senso transitorio, non risolutivo, “di un passaggio” nella riflessione sul Mito. Insieme, le sei tappe restituiscono le declinazioni con cui ho cercato di tradurre: esercizio, magma, esattezza poetica, magnetismo, architettura, ostinazione, declivio, necessità, dentro e fuori… Anche l’ultimo quadro dal titolo And it burns burns burns, il cui debutto sarà il 18 novembre a Reggio Emilia, può essere visto sganciato dai precedenti. Rispetto agli altri, che pur non essendo narrativi avevano un contorno netto, una cornice a contenerne gli eventi, questo quadro si muove in orizzontale rendendo maggiormente percepibile la presenza di uno spazio esterno, di un orizzonte esteso e indecifrabile. Il passaggio continuo di un “testimone” la cui fiamma continua a bruciare, appunto.
Gli artisti sono spesso insoddisfatti delle loro creazioni. Tu come vivi il rapporto con l’opera una volta che la rilasci? Le modifichi mai?
L’opera è viva. E’ come un assetto posturale… muta sempre. E’ come entrare ogni volta in uno spazio nuovo. Dunque, la tentazione è sempre quella di riaprirla di ritoccarla. Di ri-accordare le immagini. A volte di gettare tutto e ripartire. Nei fatti, concedo sempre uno scarto tra il debutto e le prime 5 o 6 repliche. Il tempo necessario per recuperare una distanza dal lavoro, di scollarlo dalla mia pelle e ritrovarlo nella condivisione con il pubblico. Lì, nel tempo della sua visione, cerco di capire come appoggiare al meglio le dosi interne, le temperature, il microclima: i gradi di presenza degli interpreti, il ritmo delle azioni, la trama temporale. Ovviamente l’intento è giungere ad una forma finale ma, non essendo la forma altro che la manifestazione di una tensione, ogni configurazione mi appare sempre transitoria. Forse, in estrema sintesi, non ci può essere mai piena soddisfazione in quello che si fa, perché e così fosse si smetterebbe di fare ricerca.
Dimmi quali sono tre figure che nella tua mente hai associato alla figura di Prometeo e che seppure in maniera immateriale sono presenti nella creazione.
Leonardo Da Vinci per il suo Hostinato rigore: un vero portatore del fuoco prometeico. Salvatore Viganò, creatore del coreodramma: il suo Prometeo è un’esaltazione della technè come vitalità creativa. Epimeteo “colui che arriva dopo, che ha solo il senno del poi”. E’ Il fratello di Prometeo, “colui che arriva prima, che prevede”. Epimeteo sposa Pandora e svela l’orizzonte oscuro che investe l’umanità. Nel segno dell’homo faber e di un destino che non è possibile decifrare.
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