MATTEO BRIGHENTI | Mario Gianassi e Andrea Macaluso. Nonno e nipote. Una foto in bianco e nero, il gessato e la cravatta, accanto a una a colori, i jeans e il giubbotto di pelle. Lo stesso sorriso, di chi accoglie il futuro sulla soglia del proprio sogno. Che per entrambi si chiama Il Lavoratorio.
La ditta che fu di Mario, in Via Giovanni Lanza 64/a, nel quartiere di Campo di Marte, a Firenze, rinasce a 50 anni dall’Alluvione del ’66, grazie ad Andrea, come associazione e spazio fattivamente culturale di ‘teatro, musica, danza e affini’. L’operosità era ed è la pietra di costruzione, tanto nella vecchia quanto nella nuova attività l’estro è affidato al corpo, ieri dell’artigiano, capace di creare borse inimitabili, oggi dell’attore, autore di storie irripetibili, frutto di un incontro diretto con il pubblico. Non solo spettacoli, Il Lavoratorio promuove infatti seminari, workshop, giornate di approfondimento, e anche residenze: a novembre è in programma, in collaborazione con carrozzerie n.o.t di Roma, una prova aperta di Se non sporca il mio pavimento di Giuliano Scarpinato, l’autore del premiato Fa’afafine.
L’inaugurazione di sabato 15 ottobre è stata una festa, gioiosa e partecipata, da spettatori curiosi, operatori, artisti come Riccardo Amadei, Alessandro Baldinotti (in ‘stagione’ con Freaks K. e con un corso di dizione), Tamara Balducci, Gianna Deidda, Rosanna Gentili, Giusi Merli, Gaia Nanni, Silvia Paoli (terrà un corso di recitazione), Massimo Verdastro. Marta Cuscunà ha letto le testimonianze di lotta di alcuni partigiani: parole grandi per un grande inizio.
Le relazioni sono il primo e più importante ‘capitale d’investimento’ di Andrea Macaluso. “Per questo – afferma – per me è stato commovente inaugurare con amici che sono venuti pure da lontano a portare il loro omaggio e la loro testimonianza: dal Friuli, da Roma, da Gubbio, da Rimini… a cui si sono unite tante testimonianze di solidarietà, anche scritte, da chi non ha potuto esserci fisicamente. Una comunità che si riconosce nel progetto, che ha voglia di sostenere una proposta che in qualche modo cerca di andare controcorrente”.
Così, seduti sulle poltrone della stanza studio, abbiamo risalito il corso tempo, alle origini di Via Lanza, per ridiscendere impetuosi verso il presente. E oltre.
Qual è l’origine del nome ‘Il Lavoratorio’?
“È il nome con cui in famiglia si è sempre chiamato confidenzialmente il luogo in cui mio nonno aveva la sua attività: ‘Ditta Mario Gianassi – borse per signora, cartelle da scuola, da legali e affini’. Io non ho mai conosciuto mio nonno, perché è morto l’anno prima che io nascessi, ma anche la nonna si riferiva al magazzino di via Lanza come al ‘Lavoratorio’. E rovistando tra le carte di famiglia, ho trovato che nello stesso atto di compra-vendita dell’immobile c’era per l’appunto la dicitura ‘Lavoratorio’, scritta a mano da mio nonno. È un nome che mi ha sempre incuriosito, e divertito: sa di familiare, di antico, di autentico. Non ho mai avuto dubbi che questo dovesse rimanere il nome del luogo, nel segno di una continuità con la sua storia”.
‘Lavoratorio’ è un termine alternativo a ‘laboratorio’. Sembra che tu abbia voluto mettere in risalto il lavoro, la fatica, la pratica, manuale prima che intellettuale. È così? È questa la tua idea di teatro?
“Credo che il teatro sia un mestiere, qualcosa che si impara andando a bottega, che si tramanda attraverso la pratica più che con la teoria. Per cui, fin da subito ho pensato che un luogo dove da sempre si è sviluppato un lavoro manuale creativo, frutto di una fatica fisica, fosse perfetto per ospitare un progetto legato al teatro. E mi è parso che proprio allacciandosi a questa preziosa storia di alto artigianato potessimo creare un piccolo, ma qualificato atelier in grado di ospitare la creatività, la progettualità, lo studio legato alle arti performative. Il termine ‘Lavoratorio’ in tal senso mi sembrava un bell’anello di congiunzione tra la storia di mio nonno e della sua attività artigianale, e la tradizione teatrale del Novecento che a questo termine ha legato una pratica specifica legata al corpo e alla formazione dell’attore. Non solo… nel nome è rimasto volutamente anche quell’ ‘affini’: ‘teatro, musica, danza e affini’, che apre il campo ad altre possibilità artistiche: mostre di arte e fotografia, incontri di studio, eccetera, e suona maldestramente fuori moda nel citare il ‘payoff’ dell’antica ditta di mio nonno. Le battute su quell’ ‘affini’ ora naturalmente si sprecano…”
Com’è nato il progetto? Che domanda ti sei fatto di cui Il Lavoratorio è stata la risposta?
“Sono convinto che sia nato da solo, che a un certo punto io non potessi fare a meno di seguire ciò che le circostanze stesse mi chiamavano a fare. Per farla breve: un bel giorno dopo vari anni di affitto ad un artigiano (restauratore di mobili antichi), il fondo torna alla famiglia e io vengo chiamato a prendere in mano la situazione: nessuno in casa ha voglia di occuparsi della ristrutturazione, io invece ho molta voglia di realizzare un mio piccolo sogno: uno spazio teatrale libero, autonomo e indipendente, dove poter realizzare i miei progetti, ospitare il lavoro di artisti amici che stimo sia umanamente che professionalmente, far incontrare tra di loro diverse realtà. E il ‘caso’ vuole che all’improvviso, dopo tanti anni, cominci per me un periodo abbastanza libero per potermi dedicare anima e corpo a questa ‘follia’. Insomma si trattava solo di non opporre resistenza a ciò che mi stava succedendo, e così ho fatto”.
Quali difficoltà hai incontrato?
“Le difficoltà sono tante quando si ha voglia di realizzare un’idea abbastanza complicata e pochi soldi per farlo. Se da una parte il locale aveva bisogno di una ristrutturazione massiccia, poiché dal 1966 non era mai stato risistemato, dall’altra non volevo ‘snaturarlo’ affidandomi magari ad un progetto di un architetto. Anzi, mi piaceva l’idea che, tornandosi a chiamare ‘Il Lavoratorio’, dovesse rimanere evidente la storia del luogo: negli antichi infissi, nel soffitto a grezzo, nei buchi dei muri dove c’erano le travi che sorreggevano le mensole per il deposito delle pelli di mio nonno. Ben presto mi sono scontrato con il fatto che ristrutturare mantenendo l’antico è ben più complicato che rifare da zero. Ma calarmi nel vivo dei lavori e frequentare le maestranze è stata per me anche una grande scuola di concretezza; oltre che la scoperta di tante cose di cui sapevo ben poco: adesso per esempio sono un esperto di fosse biologiche e di intonaco traspirante… Come si sposerà con la mia carriera di attore? Questo è tutto da scoprire e io prendo le cose con una certa incoscienza; per esempio lo spazio è aperto da pochi giorni e abbiamo in cantiere già un sacco di attività, ma la prossima settimana comincio le prove di un nuovo lavoro, che durerà più di un mese. L’idea è quella di curare con la massima attenzione entrambi i campi, e far sì che l’uno alimenti l’altro. Vediamo che succede…”
Che Firenze trova Il Lavoratorio? E che cosa darà a Firenze (che ancora non c’è)?
“Firenze è una città complicata, se da un lato la conosco bene perché ci sono nato, dall’altro molti meccanismi mi sfuggono perché per lunghi anni non ci ho vissuto e non ci ho lavorato. C’è apparentemente una proposta culturale abbondante, e ci sono tanti operatori culturali che portano avanti con passione e professionalità il loro lavoro, anche in condizioni non sempre facili. Manca però secondo me un’attitudine all’apertura: verso gli altri colleghi, verso l’estero, verso il nuovo, verso il diverso. Mi piacerebbe che questo piccolo spazio potesse in parte dare un contributo in questo senso, nel creare possibilità di incontro, scambio e condivisione tra pubblico e artisti, tra discipline, approcci e visioni diversi, tra fasce di persone lontane tra loro per provenienza sociale e geografica. “Spazio franco, campo d’azione: sinonimo di libertà!” per riprendere l’espressione che ha usato Massimo Verdastro, amico attore che ci ha omaggiato in occasione dell’inaugurazione con la lettura di due splendide poesie del grande poeta siciliano Nino Gennaro: un ‘diverso’ per eccellenza”.
Tra il pubblico c’era anche una vicina che salvò la vita a tuo nonno durante l’Alluvione…
“Non appena mio nonno intuì che l’Arno era straripato, corse subito al Lavoratorio a cercare di salvare il salvabile, nell’illusione che ciò sarebbe stato possibile. Quando si rese conto che l’acqua era arrivata al soffitto (per la precisione a 2,78 m) e che ormai non c’era più niente da fare, tentò di salvarsi la vita uscendo, ma ormai la pressione dell’acqua non consentiva più di aprire le porte. Allora, afferrate le chiavi che teneva in alto sopra un telefono a muro, aprì il lucchetto che chiudeva le finestre e riuscì a portarsi fuori dal locale: l’acqua scorreva impetuosa. La famiglia dei vicini, di cui la signora Cosetta presente all’inaugurazione faceva parte, lo salvò gettandogli delle funi e lo accolse per la notte. Gridando, mio nonno avvertì mia madre e mia nonna, chiuse in casa lì vicino, che lui era salvo e al mattino dopo tornò da loro. Mia madre per la prima volta lo vide accasciarsi a terra e piangere a dirotto: tutto era perduto. Oggi, a cinquanta anni da quel giorno, riparte una storia di famiglia che si era interrotta. Anche questo, forse, un caso?”
Nel Lavoratorio sono tanti i segni della precedente attività di tuo nonno, alle pareti, nelle fotografie. Ti sei chiesto cosa direbbe ora nel vedere come il suo spazio ha ‘cambiato pelle’?
“Mi piacerebbe che facesse un bel sorriso, come quello della foto che ho ingrandito e attaccato al muro: si vede un giovane uomo raggiante che esce di slancio da una fiammante Topolino, pieno di energie, fiducioso nel futuro, che ha voglia di impegnarsi, anche in maniera giocosa, e di fare la sua parte”.