RENZO FRANCABANDERA | Che tipo di lavoro critico è possibile fare nell’epoca del superamento dell’estetica per come tradizionalmente intesa, e soprattutto nell’epoca del digitale? L’analisi del bello si fonda sempre più sul giudizio soggettivo, relativo, un canone eminentemente personale, possibilmente condiviso con pochi altri per idem sentire o formazione, corroborato spesso dall’analisi vuoi di elementi di coerenza e valutazione, vuoi di elementi strutturali osservati nella creazione artistica, oltre che nell’intenzione che sottostà all’opera nel suo esito definitivo.
Il giudizio oggettivo patrimonio di tutti e condiviso da una collettività che si chiama “Estetica”, è ormai un ricordo di un tempo della storia umana superato con la fine delle grandi ideologie. E’ forse proprio la sua mancanza, il riferimento per valutare il bello, il giusto, il buono (già Shakespeare ne parlava nel Macbeth) a segnare fortemente la crisi che viviamo alla soglia della biologia tradizionale a favore di quella che incontrerà fra meno di due generazioni il bionico. Incredibile già solo a dirsi.
Tutto lontanissimo in apparenza dal ciclo degli Atridi, dalla tragedia classica, dalla vicenda che dalle porte di Micene o Argo conduce i Greci a far guerra a Troia. Ne restano pochi megaliti millenari, avvolti dall’erba in questa stagione dell’anno. Eppure molte questioni sul tema del relativo, sulla fine dell’umanesimo prima ancora che dell’umano, tornano scorrendo le problematiche, non solo artistiche, affrontate direttamente e indirettamente nel recente Santa Estasi di Antonio Latella, uno progetto di alta formazione voluto da ERT Emilia Romagna Teatro e culminato nella riscrittura del ciclo da parte di alcuni giovani drammaturghi, con otto tragedie affidate ad un gruppo di sedici attori under 30 per un lavoro di interpretazione che ha fatto gridare unanimemente al bello.
E questo per un verso non ci sorprende, conoscendo il potenziale di intervento sugli attori del direttore d’orchestra (segnaliamo a questo proposito l’utile e agile volumetto La misura dell’errore, appena uscito per i tipi di Caracò, con un’intervista lunga e interessante fra vita e metodo di Emanuele Tirelli al regista e all’uomo Latella), e dall’altro, come sempre quando il concetto di bello si diffonde come giudizio su una popolazione ampia di persone chiamate a valutare qualcosa (intendiamo spettatori, addetti ai lavori, osservatori critici), deve indurre a ragionare su cosa sia questo bello che abbiamo avuto davanti agli occhi.
Per questo abbiamo voluto proprio aprire la riflessione sul concetto di bellezza, ribadendo che esso è in gran parte soggettivo, ma si fonda su una serie di elementi culturali e soprattutto psicologici ai quali difficilmente sfuggiamo e che ci condizionano non di rado in maniera inconsapevole.
Partiamo dai fatti, il più possibilmente oggettivi.
Il cuore di questo allestimento è in una serie di quadri, ambientati in un interno borghese, con scenografia di recupero, fatta di elementi presi da allestimenti storici di Ert, e composta di poco: poltrona, cucina, tavolo, aggiunto di pochi elementi fra onirico e tragico, come l’unicorno da giostra, due enormi specchi che dal fondo della sala arrivano quasi in proscenio nell’ultimo atto, e uno squarcio su corridoio/esterno stanze preso pari pari dal Servitore di Latella, dove era un albergo. Bastoni usati per il coro: sono elemento ritmico-simbolico di raccordo con il mondo degli aedi e con quello degli accenti del verso ai tempi delle tenzoni fra i maestri dell’Antica Grecia.
La vicenda più familistica, vorremmo dire, che familiare di Atreo e progenie si sciorina davvero come in una soap-opera, nel tentativo di guardare a legami di famiglia e legami di potere come ad un unico inscindibile groviglio, fatto qui di testi e sottotesti che attraversano la storia dell’umanità e del teatro, dal tragico greco alla drammaturgia contemporanea, passando per tutti i grandi (se non nella forma, come ad esempio per Shakespeare esplicitamente citato, almeno nella sostanza, con sprazzi di assurdo, postdrammatico, ecc) fra modalità presente e parola classica, in alcuni casi proferita addirittura in lingua originale.
Cosa è stato bello allora? Probabilmente in primis l’idea stessa di scorrere l’intera vicenda, guardando, invece che al singolo episodio, all’intera saga: l’eredità eschilo-euripidea e non solo, riletta attraverso lo sguardo e l’occhio di giovani drammaturghi, restituisce al nostro oggi una possibilità di racconto dell’identità all’interno delle quali Antonio Latella ed i suoi ragazzi riescono a vivificare ambienti umani con squarci di angosciante lucidità.
Si tratta di un lavoro imponente, raro, che manca al pubblico contemporaneo, meno avvezzo alla memoria unitaria dell’eredità del mitico, della sua visione a tutto tondo. Quei miti per gran parte non abitano più il nostro tempo, se non per lontanissimi echi deformanti appannaggio di pochi appassionati. Ci viene da dire che siamo forse un po’ in difetto da questo lato della scena, se guardiamo al fatto che questo lavoro è curativo rispetto a ciò che più non ricordiamo, all’Alzheimer culturale e di eredità di noi, generazione presente.
Ma fosse solo questo, evidentemente non sarebbe sufficiente ad avere un consenso ampio; bello è stato forse anche, per il pubblico, il tentativo di risposte attraverso il meccanismo delle relazioni non solo di gruppo ma anche nel rapporto con se stessi. Un Festen di tremila anni fa, e lo diciamo non a caso visto che la saga si conclude con tutti attorno al tavolo e una pietà al contrario con padre Agamennone che allatta la figlia Crisotemi, ma dove quest’ultima si trova a riversare un monologo all’apparentemente inebetito genitore.
La domanda essenziale a cui questo polittico cerca di dare risposta è: esiste un legame ancora forte fra tragico, mitico e presente, fatto di gesti ancestrali, di rinnovamento del linguaggio da un lato e sua permanenza secolare dall’altro, un legame quasi biologico, fatto di allattamenti, abluzioni, isterie, psicosi? La risposta affermativa porta poi il regista ed i ragazzi a capire quali elementi tipici vengono fuori dal ritornare dell’elemento leggendario nel tempo, fino all’oggi, e così i personaggi non sono veri e propri interpreti di un frammento di storia, ma tipicità caratteriali; tipicità che ripercuotono la propria essenza, ora virtuosa ora malata, nei secoli dei secoli. Fino a noi. La struttura familiare madre e matrigna, il dilemma matriarcato patriarcato, il rapporto genitori figli, le diverse forme di amore all’interno dei legami interpersonali: non c’è tema che in questi otto spettacoli, quasi fosse un vinile, non suoni sia il suo lato A che il lato B, il suo ascolto più facile e diffuso e quello più celato e meno facile da ascoltare.
Nei confini della saga, quindi, si riesce a leggere tutta l’identità della cultura occidentale fino al tempo presente.
Considerando la pur non omogenea riscrittura di tutto il complesso testuale, ma anche la potenza evocativa dell’identificazione in una stessa figura umana (quella di un attore), interprete di un personaggio da inizio a fine saga, la regia ci fa conoscere le debolezze da “matriarca” fallito del padre presunto padrone, la lucidità isterica della regina governante, il tratto psicotico del suo insicuro amante.
Questo è sicuramente affascinante: Ifigenia è interpretata dalla stessa attrice per tutto il tempo; e così pure Elena, Agamennone, Oreste, ecc. Si converrà che anche questa cosa esprime una sua forza di autorappresentazione verso lo spettatore non banale, perché ricuce la frammentarietà del teatro attraverso l’unicità della figura umana di riferimento.
La regia, quindi, di suo, compie due operazioni tanto semplici quanto rivoluzionarie, restituendo unità al diviso, ricreando un legame col mito, rivivificato dall’affidare il tipo umano al singolo attore, e ricercando quel tipo umano nei diversi testi, in modo da agevolare anche la direzione della riscrittura, fornendo quindi un input straordinario per imprimere alla nuova testualità uno svolgersi coerente con uno spirito possibilmente indirizzato, ove possibile.
Bella la generosità del gruppo, che comprende alcuni talenti di evidente calibro prospettico, a volte ingabbiati in personalità più esuberanti e bisognose di un po’ di freno, ma con una qualità significativa di cui sono tutti dotati, al netto di alcune ovvie acerbità, considerando che per alcuni parliamo davvero di donne e uomini che non possono ancora votare per il Senato della Repubblica (e potrebbero addirittura non farlo mai…).
Personalmente ho annotato alcune cose interessanti che ciascuno di loro mi ha dato: il deformante specchio indagatore sul viso e nel corpo di un potente e fragile Oreste, Christian La Rosa, lo stare in scena piano-forte di Ilaria Matilde Vigna e Leonardo Lidi, rispettivamente Clitemnestra e Agamennone, l’Egisto libidinoso e disturbato di Emanuele Turretta, attento per la gran parte a non salire inutilmente di tono, come anche il Menelao di Ludovico Fededegni.
Femminilità giovani e diversamente genuine quelle a cui riescono a dar corpo Barbara Mattavelli con la sua Barbie-Cassandra e l’Elettra pop-di periferia di Marta Cortellazzo Wiel, protagonista di una delle scene più belle, nell’Oreste, con un dolcissimo triangolo d’affetti stile Jules e Jim con il fratello ed un positivo, specialmente quando più concentrato e attento alla relazione con l’intorno, Pilade-Andrea Sorrentino.
Opposte e vigorose la Elena etilica di Barbara Chicchiarelli e l’Ifigenia eterea e filosofica di Federica Rossellini: riescono ad essere centro di gravitazione senza stare al centro.
Necessari e precisi Mariasilvia Greco e Giuliana Vigogna, Alexis Alisha Massine e Gianpaolo Pasqualino nel gioco scenico, quell’opera di costante ricucitura vocale, fisica e ritmica delle scene, di alimento dell’immaginario: il centrocampo dello spettacolo è affidato a loro. Ci si accorge ben presto del compito non agevole di cui hanno carico. Siamo certi se ne siano accorti anche loro, da professionisti. Interessanti anche nei ruoli solisti.
Chiudiamo con il vezzo latelliano del giovane duo. Nella maratona di Hamlet’s portraits erano il Rosencrantz e Guildenstern di Giuseppe Lanino ed Emilio Vacca, qui i Tantalo e Plistene (e non solo) di Alessandro Bay Rossi e Isacco Venturini: quando capiscono la potenza dell’elemento duale che si va via via generando con la loro presenza, arrivano a restituirla con inaspettata originalità e freschezza.
Tutta questa gioventù qualche volta si mangia ancora un po’ la parola e costringe alcuni (tipo me, per dirne uno) a leggere i sovratitoli in inglese per capire che si sta dicendo (in italiano) nelle scene convulse e senza respiro; ma per altro verso è capace di farci sentire davvero lo scricchiolio delle ossa sulle tavole del palcoscenico come predicava Artaud.
Tutta questa gioventù è bella. Si. E’ bella.
E’ bella perché ha avuto occasione di formarsi con un guidatore di auriga al pari di Ben Hur (bellissima la scena in cui Heston parla nottetempo uno ad uno ai suoi cavalli per convincerli al meglio nella gara del giorno dopo), capace di far tirare davvero fuori all’attore ogni talento e di non sprecarlo, verificando chi sa suonare, chi è acrobata, chi sa fare cosa, e sfruttando i talenti come occorre.
Tutto questo insieme di cose è bello.
Ragioniamo ora su queste tematiche andando al lato B di questo disco: occorre un’intuizione registica unitaria sullo spazio del tragico, la scelta di stabilire inscindibilmente i binomi attore-personaggio, la ricerca di uno spazio fra drammatico e postdrammatico per rendere, ad un numero ancora maggiore di fruitori, intelligibile il senso di un’operazione che, per portata concettuale e lavoro di approfondimento su testo e caratteri, potrebbe e dovrebbe essere, se le scuole teatrali italiane fossero abitate più frequentemente e diffusamente dai grandi maestri, un saggio obbligatorio di diploma d’attore, prima ancora che un innegabilmente potente e sferzante esito spettacolare, quale indubbiamente Santa Estasi è.
Invece abbiamo scuole istituzionali lungo tutto lo stivale, legate a teatri stabili che hanno dovuto metterle in piedi fra il giorno e la notte due estati fa, per guadagnare il riconoscimento di status ministeriale (e i conseguenti denari); e queste scuole sfornano diplomati che per gran parte non hanno frequentato in vita loro il palcoscenico come spettatori, spinti alla professione dall’ego e ignari dell’iceberg che nella notte si avvicina al Titanic, se la ciurma invece di lavorare e investire in professionalità, festeggia e canta.
E tutto questo non è bello.
Santa Estasi è un ottimo caso di buone pratiche, che ha visto coinvolto uno dei centri di maggiore intuizione sullo sviluppo del linguaggio dello spettacolo dal vivo, se non il maggiore in Italia, uno dei migliori se non il migliore regista in circolazione nel lavoro sugli attori e non solo, un gruppo di alcuni fra i migliori talenti delle ultime sfornate di attori. presi fra quelli usciti da diverse scuole, per la gran parte a nord, duole dirlo (ma siamo sicuri non ci sia stato alcun discrimine a priori, anzi).
Dalla selezione abbiamo un po’ testimonianza indiretta del fatto che a Sud si arranca sulla formazione al nuovo.
Ma questo non ci sorprende. Basti vedere cosa varca il confine della macroregione per capire dove sta il fulcro dello spettacolo dal vivo oggi. Ma attenzione, in altre aree metropolitane teatrali si arriva a spendere cifre impensabili senza approdare a risultati apprezzabili, senza che mai una produzione una attraversi, per qualità, non dico il confine nazionale, ma il Tevere o l’Arno nel migliore dei casi. Roba da pazzi, o da Al Pacino. Diciamocelo con franchezza.
Chiudiamo rivolgendoci agli attori.
Santa Estasi è stato un grandissimo inizio per loro. Una botta di fortuna che potrebbe ricapitare, ma anche no. Che tengano quindi a mente che è solo l’inizio. E che se hanno assaggiato dell’ottimo gelato, non è detto che abbiano la stessa fortuna al secondo gelataio. Quelli che fanno il pistacchio coi pistacchi (che costano) si contano sulle dita di una mano.
Noi ovviamente auguriamo loro tutta “la merda” dell’universo; come gli auguriamo di aprire davvero il cuore ad un lavoro affascinante e durissimo, che potrebbe anche vederli giovani e premiatissimi a breve, ma che sappiano, salendo ipotetici scalini o tappeti rossi che la vita gli presenterà, che hanno fatto solo il loro dovere. E che cantare, danzare, recitare in modo denso e profondo, cercando l’io e non l’ego, è la norma appena varcato il confine. Si butti un occhio agli attori di Hermanis, Korsunovas, Ostermeier ecc.
E questo, perché?
Ecco: questo ha molto a che fare col bello sociale che abbiamo perso come comunità, perché l’Italia nell’ultimo trentennio ci ha progressivamente abituato a poche sante estasi e a moltissime diaboliche tentazioni, fra onanistiche manie di grandezza e giochi di ruolo che hanno poco da spartire con l’arte; si vedano i cartelloni degli stabili (almeno finché restano stabili) e le dark room di scambismo spettacolare ancora molto affollate, anche da teatrini tric e trak e pseudo indipendenti “20/80” (parliamo della ripartizione dell’incasso fra compagnia e teatro, come di una prestazione da strada), giusto per incentivare la gioventù.
E chi meglio del regista di una compagnia “stabile/mobile” può saperlo, questo? Fortunato chi ha avuto la possibilità di capire, in cinque mesi di duro lavoro, quale sia l’unica strada possibile per trovare (e manco è detto) un posto al sole per il proprio talento.
Ah, Santa Estasi…
Che bello il bello, ma che brutto il brutto!
Santa Estasi
Atridi: otto ritratti di famiglia
Corso di Alta Formazione: progetto e regia Antonio Latella
Ifigenia in Aulide da Tieste di Seneca e Ifigenia in Aulide di Euripide
adattamento Francesca Merli
tutor Antonio Latella e Federico Bellini
assistente alla regia Francesca Merli
Elena da Le Troiane e Elena di Euripide
adattamento Camilla Matiuzzo
tutor Antonio Latella e Linda Dalisi
assistente alla regia Camilla Mattiuzzo
Agamennone da Eschilo
adattamento Riccardo Baudino
tutor Antonio Latella e Federico Bellini
assistente alla regia Riccardo Baudino
Elettra da Euripide
adattamento Matteo Luoni
tutor Antonio Latella e Linda Dalisi
assistente alla regia Matteo Luoni
Oreste da Euripide
adattamento Pablo Solari
tutor Antonio Latella e Federico Bellini
assistente alla regia Pablo Solari
Eumenidi da Eschilo
adattamento Martina Folena
tutor Antonio Latella e Linda Dalisi
assistente alla regia Martina Folena
Ifigenia in Tauride da Euripide
adattamento Silvia Rigon
tutor Antonio Latella e Federico Bellini
assistente alla regia Silvia Rigon
Crisotemi di Linda Dalisi
assistente alla regia Linda Dalisi
PERSONAGGI E INTERPRETI
Achille/Servo/Teoclimeno Alexis Aliosha Massine
Agamennone/Atreo/Toante Leonardo Lidi
Apollo/Tindaro/Astianatte/Teonoe Gianpaolo Pasqualino
Cassandra Barbara Mattavelli
Clitemnestra Ilaria Matilde Vigna
Crisotemi/Ecuba Giuliana Vigogna
Egisto Emanuele Turetta
Elena Barbara Chicchiarelli
Elettra Marta Cortellazzo Wiel
Ermione/Coro/Donne Mariasilvia Greco
Ifigenia Federica Rosellini
Menelao/Tieste/Mandriano Ludovico Fededegni
Oreste Christian La Rosa
Pilade Andrea Sorrentino
Tantalo e Plistene/Messaggeri/Dioscuri Alessandro Bay Rossi e Isacco Venturini
drammaturghi al progetto Federico Bellini e Linda Dalisi
allestimento, costumi, sartoria Graziella Pepe
musiche Franco Visioli
luci Tommaso Checcucci
duelli, movimenti e coreografie Francesco Manetti
progetto video Lucio Fiorentino
assistente al progetto Brunella Giolivo
direttore tecnico Robert John Resteghini
direttore di scena Madrilena Gallo
capo elettricista Tommaso Checcucci
fonico Alberto Irrera
macchinista Sergio Puzzo