ESTER FORMATO | La vecchia critica attribuì a Liolà, definita dallo stesso Luigi Pirandello “commedia campestre”,  uno spirito “dionisiaco”, che rimandava ad influssi di microgeneri ellenici quali farse fliaciche, drammi satireschi, combinazioni teatrali che vigevano negli strati popolari delle antiche colonie italiche. Indubbiamente, il dongiovannesco Liolà incarna uno spirito erotico e vitale, accostabile ad una certa cultura contadina e popolare del sud Italia che la nostra sensibilità odierna può ancora scorgere, seppur con una certa fatica e soprattutto, attraverso un’ottica “intellettualizzata”.

La regia di Cirillo sembra aver esattamente consapevolezza di tutto ciò e dei forti annessi del testo con la commedia dialettale/rurale siciliana, con un certo naturalismo verghiano, non senza un guizzo lievemente dannunziano, elementi questi, ormai lontani dalla nostra cultura teatrale. Ciò che però conta è che Liolà si basa su un’archetipica dinamica che si traduce nell’eterna sopraffazione del potere e della smania della “roba” sulla genuinità, e che a sua volta s’incarna nella brutalità dell’uomo sulla donna. La crudeltà, la bieca potestà di un sesso sull’altro è ciò che lo spettacolo cerca di restituire in maniera universale a noi pubblico in sala, non abolendo il lato comico, (apparentemente) solare della commedia, ma riadattandolo attraverso una stilizzazione che possa coincidere con la platea di riferimento.

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Pur essendo lo spettacolo complessivo di un solo tempo, Cirillo scandisce la cesura dei tre originari atti e pone sulla scena vuota, del tutto ripulita dalla scenografia bozzettistica di un tempo lontano, tutti i personaggi femminili, seduti frontalmente al pubblico nell’atto di schiacciar mandorle. Statica, formalmente pulita e rigorosa è la prima scena, colorata appena da un tappeto di fiori che evidenzia la profondità dell’assito alle spalle delle donne sul proscenio. Tale geometria inizia a disgregarsi quando Liolà (Massimiliano Gallo) entra con la sequela dei suoi bambini, qui ormai ragazzini che ne esaltano invece che la particolare paternità, l’aria scanzonata e vivace. I suoi canti contagiano le fanciulle del paese che alla sua presenza lo scherniscono per non lasciar trapelare l’attrazione che tutte hanno per questo “donatore di vita” e di felicità.  L’impianto formale, allora, si fa meno rigido, favorendo le entrate e le uscite dei personaggi dalla e verso la sala, i tre figlioli disegnano simpatici spunti coreografici che introducono puntualmente l’ingresso di Liolà, mentre fa capolino fra una battuta ed un’altra la “drammaturgia vocale” che non solo designa la peculiarità del protagonista, ma surroga inoltre la coralità femminile di quel mondo contadino e circoscrive la muliebre sequela che il generoso Liolà ha al suo seguito.

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A livello prettamente drammaturgico, ci pare interessante la caratterizzazione di zia Croce, madre di Tuzza, e di Moscardina che insieme sostituiscono il personaggio di zia Ninfa, madre di Liolà. L’intenzione del regista, come si evince dal libretto di sala, è quella di isolare maggiormente il protagonista nella sua aura vitale, nel suo innocente e inestinguibile desiderio di amare. A noi sembra un buon meccanismo per mantenere, attraverso parole e gesti delle due donne, l’intera voce della piccola comunità contadina, onnisciente seppur interna che è anche unica traccia di una certa musicalità dialettale.  D’altra natura è il corredo musicale innestato nella drammaturgia originale,  che subisce una stilizzazione che se da un lato fa da contrappeso alla tensione drammatica fra l’innocente Mita (Giorgia Coco) e l’opportunista Tuzza (Giovanna Di Rauso), in fondo anch’ella vittima di zio Simone (interpretato dallo stesso Arturo Cirillo) e della madre, zia Croce (Milvia Marigliano), d’altro canto va ad intrecciarsi ad elementi (a ben guardare alcuni piccoli gesti, incrinature grottesche e macchiettistiche specie nell’ultima parte)  e influssi pre-eduardiani della nostra tradizione partenopea, senz’altro patrimonio inconscio del pubblico del San Ferdinando di Napoli. L’impressione di fondo, dunque, è quella di un Liolà perfettamente modellato sulle istanze del teatro ospitante, nonché sulle intrinseche caratteristiche che nel bene e nel male ne contraddistingue da tempo le produzioni, cosicché il processo di stilizzazione che epura l’opera da spunti troppo desueti per noi, appare però a doppio taglio: uno spettacolo formalmente elegante che resta impigliato in un teatro da repertorio che né ci toglie né quanto meno ci aggiunge nulla.

D’altronde tralasciando l’operato specifico di Cirillo, traspaiono – almeno dal punto di vista di uno spettatore – palesi limiti oggettivi con i quali dover far i conti qualora si metta in scena un classico come Liolà, necessariamente legato a peculiarità linguistiche e di ambientazioni e che un Teatro Nazionale odierno ha da aggirare perché non si tramuti in un bozzetto provinciale fuori tempo. Certo, già con la versione italiana del 1917 si perse quella vitalità espressiva,  quei remoti echi ellenici che attecchivano nella rigogliosa natura del protagonista, che solo il puro dialetto siculo era in grado  di dare. Dopo cento anni Liolà si profila un’impresa davvero ardua che è sfociata stavolta, come di consueto sta accadendo, in una sorta di stratificazione archeologica del teatro nostrano, forte del proprio repertorio, rinfrancato da competenze attoriali e registiche qui indubbie.

Ma è proprio la grande qualità tecnica e recitativa, la scena armoniosa e geometricamente elegante di Dario Gessati che fa tutt’uno con la naturale solarità delle luci di Mario Loprevite che stranamente, ci lascia ancora più a malincuore. Allora cosa auspicare? Continuare tuttavia a vederle queste opere, allestite perennemente come musei atrofici, oppure augurarsi di non vederle riproposte oggi… o, ancora, sviscerate, rivoltate, decostruite e ricostruite con nuovi codici e nuovi occhi?

 

LIOLÀ

di Luigi Pirandello

regia Arturo Cirillo

con Massimiliano Gallo,  Arturo Cirillo , Milvia Marigliano, Giovanna Di Rauso.
Giorgia Coco, Sabrina Scuccimarra, Antonella Romano, Viviana Cangiano, Valentina Curatoli, Giuseppina Cervizzi e con gli allievi della Scuola del Teatro Stabile di Napoli (secondo anno) Emanuele D’Errico, Antonia Cerullo, Francesco Roccasecca (Tinino, Calicchio, Pallino)

scene
Dario Gessati
costumi Gianluca Falaschi
luci Mario Loprevite
musiche e drammaturgia vocale Paolo Coletta
regista collaboratore Roberto Capasso, assistente alla regia Riccardo Buffonini, assistente ai costumi Gianmaria Sposito, direttore di scena Silvio Ruocco, elettricista Fulvio Mascolo, macchinista Fabio Barra, fonico Diego Iacuz, sarta Simona Fraterno
foto di scena Marco Ghidelli

produzione Teatro Stabile di Napoli