MATTEO BRIGHENTI | Il corpo è il segno di una lotta che il tempo non arrugginisce. Masque teatro lo segue, lo ricalca, lo scolpisce nella pietra angolare del gesto, memoria della volontà di ieri aggiornata alle ragioni, mancanze, difetti di oggi. Materia, flusso, ripetizione sono stati gli snodi della XXIII edizione di Crisalide a Forlì (28-31 ottobre), il Festival fondato e diretto da Lorenzo Bazzocchi.
Almeno così ci è parso dagli spettacoli che ci sono toccati in sorte al venerdì e al sabato, MARMO. Su una civiltà esausta dei padroni di casa Masque e Almasty, un assolo di danza di Myriam Gourfink. Il titolo-manifesto di quest’anno, Perché passi un po’ di caos libero e ventoso, viene da Caos in poetry di David Herbert Lawrence, ripreso anche dai pensatori Deleuze e Guattari in Che cos’è la filosofia?, e rimanda all’artista che riesce ad accedere alla necessità del caos, mentre l’uomo comune (si) è imbrigliato in norme, leggi, illusioni per proteggersi da ciò che può arrivare a toccarne e stravolgerne la vita.
“Siamo costretti a uscire dalla scena – spiega Bazzocchi a Lorenzo Donati, che ha curato con Jessica Imolesi i ‘Dialoghi con gli artisti’ – per andare verso il mondo, per scandagliare il fondo di questo oceano e lo attraversiamo come una zattera capovolta”.
MARMO è un concerto per solitudini, strumenti e binari. Lavoro collettivo come crogiuolo di figure sole: la narrazione è uno spettro che Masque tiene a distanza, perché manifestazione della certezza della norma che ci siamo dati per ripararci da quel ‘caos libero e ventoso’.
Liberamente ispirato a La scrittura del disastro del saggista e filosofo francese Maurice Blanchot, lo spettacolo con Matteo Ramon Arevalos, Lorenzo Bazzocchi, Giacomo Piermatti, Silvia Proietti ed Eleonora Sedioli, è la voce del rigattiere di un mondo perduto, aggrappato a una tecnologia arcaica, a un’Arcadia di viti e bulloni (la scenografia è costruita in proprio nel laboratorio del Félix Guattari, teatro ricavato dalla ristrutturazione e adeguamento degli spazi dell’ex Filanda Maiani).
Dopo la proiezione di una sembianza dalla testa rasata con una grossa pietra sotto il braccio, come uno scudo o il profilo di una barca, Silvia Proietti, muscolosa, in bikini stelle e strisce, viene spinta su una pedana-carrello coperta di erba sintetica. Alle sue spalle un paesaggio hawaiano, sabbia, mare, palme, sole. È un presepe del disimpegno politico e sociale, la vacanza di una reginetta della spiaggia dalla pelle bianca e dura come il marmo. A, la rivista anarchica italiana chiusa per terra, è il trattino d’unione tra radical e chic.
La scrittura di Blanchot è frammentazione, intermittenza fugace, ‘mormorio incessante’, allora MARMO procede per quadri indipendenti, resi comunicanti dal trovarsi tutti insieme in una specie di luna park abbandonato, inscritti nelle rotaie di un ottovolante che non porta da nessuna parte. Ecco lassù in alto, contro una tela di metallo, i movimenti ossessivi di Eleonora Sedioli, che poi esce dal quadro della proiezione iniziale come un alieno Pierrot Lunaire; ecco la bellezza della dissonanza esausta di Giacomo Piermatti, sdraiato sotto il suo violoncello, e di Matteo Ramon Arevalos, che suona un piano verticale grattando le corde con le mani.
Ecco, infine, Lorenzo Bazzocchi, “uomo delle caverne impigliato in merletti”. La distopia d’antan è completa, Brazil di Terry Gilliam incontra 1997: Fuga da New York di Carpenter e quanti hanno raccontato il futuro come barbaro ritorno al passato. Giacca, mutande e scarpe nere, i capelli da manichino o bambola di pezza, in poltrona tra un sismografo sul comodino (oltremodo attuale) e un imbracatura per un qualche volo, Bazzocchi sproloquia sulla malinconia della forza della Gran Bretagna, sul nulla impietoso dell’America. Poi, ancora, la Francia, la Russia, in un’attualità geopolitica per vuoti d’animo e figure retoriche sfibrate (il brano, scrive Massimo Marino su Boblog, è tratto da La tentazione di esistere di Emil Cioran).
“La musica sola dirà che l’Occidente non si è sprecato invano”. Ma anche quell’architettura invisibile, ormai, è crollata, è liquefatta sul tavolo da obitorio della perdita di ogni forma, come gli orologi spiaggiati di Dalì. Restano tutti fermi, immobili, sbozzati da una lingua di cui si ascolta il muto richiamo in città, sui muri di Viale Giuseppe Pedriali, non lontano dal teatro, accanto al China & African Market, la Fumetteria Bamboo e l’Ass. Arma Aereonautica: “Il vero degrado è l’abitudine a vivere!”. Potere della sintesi da marciapiede sulla verbosità libresca.
Un morbido rettangolo nero è il confine in cui è distesa, accasciata, capovolta in un body argenteo Deborah Lary, che danza in prima nazionale a Crisalide l’assolo di Myriam Gourfink Almasty su musiche live di Kasper T. Toeplitz, in scena con un portatile e un basso elettrico.
Le braccia, le gambe, sono lancette di orologio che si frange e si flette contro stati di immobilità: la partitura impone a Lary di restare sempre a terra, in orizzontale, senza alzarsi mai a riprendere fattezze di donna. L’idea a Gourfink, racconta nell’intervista a Donati e Imolesi, è venuta osservando un video sull’almas, ‘almasty’ in francese, “una specie di yeti del Caucaso, una creatura le cui sembianze non sono né animali né umane, dunque una sorta di capovolgimento dell’essere umano”.
Sinuosa, squadernata, razionalista, la danzatrice è un essere vitruviano avvitato su di sé, un volo senza vento come un movimento senza spazio. Sempre suddivisa, spezzata, asimmetrica, appare disumana nell’indipendenza degli arti, la testa in basso e i piedi in alto come nei balli di strada: a volte sembra avere due corpi, (s)componibili tra i punti di appoggio, le spalle, parte dei piedi, le ginocchia.
La mano in aria come le figure di Guernica è l’unico atto che può ricordare una richiesta di aiuto o un grido di dolore. Per il resto, Lary rimane imperscrutabile, mentre la fine avanza, crolla dal grumo elettronico di Toeplitz. Sul viso, nell’arco delle labbra, la tensione, lo sforzo, sono smorfie controllate, nuvole passeggere.
Grande è la sua tenuta, la padronanza delle articolazioni, quasi da ginnasta siderale, ma il moto continuamente frustrato nel suo compimento dall’insistenza della ripetizione conduce il pubblico allo sfinimento. Almasty sembra durare un’eternità, quella dello stallo senza tempo. Non ha crescita, né sviluppo, cambia, passa, transita di peso in contrappeso, e se finisse adesso o tra 5 minuti non cambierebbe nulla, la prospettiva, l’urgenza, la tensione creativa e vitale sarebbero le stesse.
Alla lunga, la poesia della meccanica corporea si trasforma in un puro esercizio di resistenza fisica. Tanto per Deborah Lary quanto per noi.
MARMO
Su una civiltà esausta
con: Matteo Ramon Arevalos, Lorenzo Bazzocchi, Giacomo Piermatti, Silvia Proietti, Eleonora Sedioli
scene: Lorenzo Bazzocchi, Eleonora Sedioli
elettronica: Matteo Gatti
video: Andrea Basti
tecnica: Tommaso Maltoni, Stefano Cortesi
costumi: Anna Bazzocchi
musiche: Matteo Ramon Arevalos, Giacomo Piermatti
organizzazione: Clio Casadei
ideazione e regia: Lorenzo Bazzocchi
coproduzione: Mood Indigo_Bologna
produzione: Masque Teatro
Almasty
Coreografia: Myriam Gourfink
Danza: Deborah Lary
Musiche: Kasper T.Toeplitz
Luci: Kasper Toeplitz
Costumi: Laurence Alquier
Coproduzione le Forum / Scène conventionnée de Blanc-Mesnil, avec le soutien du Conseil général de la Seine-Saint-Denis. L’association LOLdanse est soutenue par le ministère de la Culture et de la Communication, Drac Île-de-France, au titre de l’aide aux compagnies conventionnées. Avec le soutien du Centre National de la Danse (mise à disposition de studios).