ROBERTA ORLANDO | Il telo bianco che fa da sipario è ancora calato, all’ingresso in sala, ed esibisce la proiezione di una celebre citazione di Nietzsche: “Dio è morto”. Era L’uomo folle a gridarlo, nell’aforisma del filosofo tedesco, in mezzo a una schiera di miscredenti, attribuendo all’uomo la colpa di questa morte e prevedendone il conseguente caos. Aggiungeva infatti “Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di questa azione?”.
Ebbene, il caos non tarda a palesarsi sul palco del Parenti. E nemmeno Dio. Ma non era morto? Sì, ma se il regista entra in scena, con tanto di soprabito scuro e sciarpa al collo, presentandosi come il Creatore, il dubbio è lecito.
Si tratta di Luca Micheletti, che oltre a dirigere questo lavoro, interpreta Mr. Jay, un regista/Dio dall’aspetto folle e a volte sadico, che si serve dell’assistenza dell’ebreo Goldberg (una sorprendente Marcella Romei) per allestire uno spettacolo sulla Bibbia, a partire appunto dalla creazione del mondo, nonché della prima grande contraddizione universale: la luce e le tenebre. All’occorrenza, è ancora lui a creare le virtù umane, come il perdono e l’amore per il prossimo, introducendo così la metafora dell’essere umano, costretto all’infelicità del dover essere buono.
Dopo un’accoglienza quasi solenne, concessa da un palco spoglio e circoscritto da pareti coperte di gommapiuma, dalla musica di Bach e poi dalla voce della cantante lirica Barbara Costa, nei panni di Mrs. Mopp (operatrice d’igiene universale), il palco si accende, letteralmente. Un triangolo luminoso al centro della scena ci rimanda ai tre temi principali: Dio, l’uomo, il teatro. Anche una croce sul pavimento si illumina a intermittenza, si intravede, come fosse tracciata sulla sabbia del deserto di Gerusalemme, città in cui l’opera è ambientata. In effetti, all’inizio è un po’ faticoso orientarsi in questo turbine di parole e concetti in bilico tra realtà e finzione, verità e libera interpretazione, ma diversi sono gli elementi scenici che fungono da “segnaletiche”, attraverso questa indagine.
Ciò su cui il testo di Tabori (scrittore ungherese ed ebreo sfuggito alla shoah) vuole indagare è la moltitudine di interpretazioni possibili delle sacre scritture, con tutte le contraddizioni esistenti tra la volontà dell’uomo, nel continuo processo di ricerca di sé, e del “volere divino”.
E qual migliore terreno d’indagine se non il teatro, che si fonda sulla ricerca e sull’interpretazione?
Gli altri attori in scena, Japhet (Michele Nani) e Raamah (Pietro De Pascalis), costituiscono l’elemento comico dello spettacolo, anche se la comicità sfocia facilmente nel grottesco e nell’osceno, con una parodia stereotipata dell’ebreo e del teatrante, associati entrambi a un concetto di schiavitù. Il rimando a Beckett è immediato: sembra di vedere Pozzo e Lucky, ma anche il protagonista della sua Catastrofe. Questo è solo uno dei tanti riferimenti letterari del testo, tra cui si apprezzano i rimandi anche a i Fratelli Karamazov di Dostoevskij, e ancora Kafka e Shakespeare.
Infine, il personaggio di Terese Tormentina è l’immancabile spunto di riflessione sulla visione della donna, nel contesto religioso quanto in quello artistico. Non a caso, Claudia Scaravonati è impegnata in azioni cabarettistiche, di codice violento o passivo nella relazione, che ci paiono quelle meno convincenti (meno necessarie?) rispetto allo svolgimento tematico, ma spesso anche le più conturbanti esteticamente.
La suddivisione in brevi scene (15, per l’esattezza, che se consideriamo insieme alle loro corrispondenti metaforiche, richiamano le 30 Variazioni di Bach), con tanto di titolo proiettato in fondo palco, come piacerebbe a Brecht, risulta necessaria per la scansione ritmica della messa in scena. Ad agevolare il ritmo giocano un ruolo altresì importante i neon e le luci stroboscopiche, dai colori vivaci, che evidenziano dettagli e alterano drasticamente l’aspetto candido e insonoro del setting. Lo spazio scenico, inoltre, si restringe e si allarga continuamente, di pari passo con il campo semantico della parola e dell’azione.
L’attenzione, bisogna ammetterlo, non cala quasi mai, nonostante il flusso di parole somigli a un fiume prossimo alla piena. Probabilmente perché abbiamo a che fare con un testo pregno di contenuti, di ironia e di opportunità introspettive, in cui ogni elemento è in costante conflitto con l’altro. Un testo tradotto da professionisti come Marco Castellari e Laura Forti e che Micheletti ha saputo restituire con una passione percettibile.
I rischi erano almeno due: un eccessivo artificio estetico e una pesantezza linguistica. Invece abbiamo assistito alla buona riuscita di un esperimento metateatrale e metalinguistico, dai dettagli non trascurabili, dalla musica suonata dal vivo (da Rossella Spinosa al pianoforte e cembalo) a una serie di trovate tecniche: l’uso di microfoni, un proiettore collegato a uno smartphone con cui i protagonisti si riprendono mentre si muovono tra gli spettatori, pareti mobili e persino un drone.
La conclusione è un ulteriore sconvolgimento anziché una risoluzione, perché la ricerca della propria identità e del proprio Dio è un percorso potenzialmente infinito; o magari perché, come canta Guccini nella sua Dio è morto “…è venuto ormai il momento di negare tutto ciò che è falsità, le fedi fatte di abitudine e paura”.
LE VARIAZIONI GOLDBERG
di George Tabori
traduzione di Marco Castellari e Laura Forti
regia di Luca Micheletti
con Luca Micheletti, Marcella Romei, Michele Nani, Pietro De Pascalis, Claudia Scaravonati, Barbara Costa
scene di Csabal Antal
al pianoforte Rossella Spinosa
luci, audio, video di Fabrizio Ballini