ROBERTA ORLANDO | L’avevamo già pregustato all’interno del progetto Next, ma dopo il debutto in prima nazionale, ci sembra doveroso un approfondimento dell’ultimo lavoro di Francesco Frongia, in scena all’Elfo Puccini fino al 4 Dicembre.
Un soggiorno moderno, il suono della tv accesa, una donna anziana in un impermeabile eccentrico, un’altra più giovane che la rimprovera, come una madre con la figlia adolescente che ha messo una gonna troppo corta o che ha preso un’altra nota a scuola. Peccato che qui i ruoli siano ribaltati. È la figlia che detta le regole comportamentali a una madre che ha fatto di nuovo “la pazza” al supermercato, che si è messa ancora quella giacca ridicola, che ormai sta diventando lo zimbello del quartiere. La reazione dell’anziana Muriel (Ida Marinelli) è incostante, a tratti sembra imbarazzata, altre volte indifferente, oppure non smette di giustificarsi e di sdrammatizzare, accrescendo la collera della figlia Stephanie (Elena Ghiaurov) che sin dalle prime battute si dimostra stremata dalla situazione.
Questa è solo la prima delle otto scene che compongono l’atto unico di Joyce Carol Oates, autrice americana che Francesco Frongia aveva già affrontato nel 2010 con “Nel buio dell’America – Dissonanze” (tradotto come in questo caso da Luisa Balacco) e che in Italia risulta ancora poco nota, rispetto all’ampiezza della sua produzione.
Le due protagoniste sono in costante conflitto non solo tra loro, ma anche con il mondo circostante. Un mondo che per Muriel è fatto di rifiuto del passato e del suo ruolo materno (persino di farsi chiamare “mamma”), di amori immaginari e scomposizione della realtà. Per Stephanie, al contrario, c’è invece la ricerca ossessiva di un passato che le è stato nascosto, il bisogno di un padre in quanto, soprattutto, arbitro di questo gioco di forze tra lei e sua madre. Ma Muriel le ricorda “Tuo padre se n’è andato tanto tempo fa, portandosi via la sua faccia”, infatti non resta neanche un’immagine di lui, non un ricordo. Così la figlia cerca (invano) un appiglio per salvarsi da questo rapporto-gabbia e dalla compassione che sta minacciando anche la sua ambizione professionale, ma allo stesso tempo ha paura. Di cosa? Di affrontare una realtà diversa, di essere indipendente (che potrebbe tradursi in ulteriore solitudine?), che è poi la paura diffusa di chi non ha ancora “tagliato il cordone ombelicale”, a prescindere dall’età.
Sulla base di questa interpretazione, ci appare paradossale che Stephanie sia impegnata nella formazione di un partito politico a favore dei diritti delle donne. Uno dei momenti più amaramente comici dello spettacolo coincide infatti con una telefonata in cui la donna espone a una collega i presupposti di una lotta contro la violenza domestica, ma la conversazione viene disturbata dalla madre che compare in tuta sportiva, accende la tv e si infiamma davanti a un incontro di boxe, facendo il tifo per Mike Tyson. Proprio in questa scena troviamo, più visibile che mai, la metafora centrale di tutta l’opera: Muriel si allena a vincere questo scontro, spinta da un (inconscio?) desiderio di riscatto e di (ri)affermazione che prevale sui sentimenti, facendoli “eclissare”.
Arriverà persino a denunciare la figlia per maltrattamento, azione che richiederà l’intervento e la mediazione di una divertente Cinzia Spanò nei panni dell’assistente sociale.
Un tema delicato, che nonostante il crudo realismo, viene affrontato con una dolcezza che ammorbidisce anche le azioni più fredde. Tuttavia, a livello ritmico si incontra qualche rallentamento che appesantisce la scena e che avrebbe quindi reso vantaggioso qualche taglio aggiuntivo. Sebbene la suddivisione in brevi scene dovrebbe favorire questo aspetto, in realtà affievolisce continuamente il livello di tensione, che sale e scende e poi risale, fino all’apice che si raggiunge solo alla fine, quando una delle due donne sembra “vincere la battaglia”, ottenendo in premio la libertà di continuare a vivere di fantasia (il che implica la coercizione dell’avversaria): ed ecco che la porta del soggiorno si spalanca per lasciar entrare l’amante spagnolo di Muriel (Osvaldo Roldan), che lasciandosi alle spalle una “paradisiaca” luce bianca, balla con lei un tango. Molto efficace l’effetto della luce, che crea una dimensione onirica nella quale le ombre dei due corpi danzanti si muovono, come avvolti nella nebbia.
L’interpretazione delle due protagoniste è il punto di forza dello spettacolo, in particolare quella di Ida Marinelli, tra comicità, follia e sdoppiamenti di personalità.
Frongia si conferma un regista di una sensibilità non comune, che sa insegnarci a vedere anche quel che non si vede.
L’ECLISSE
di Joyce Carol Oates
traduzione di Luisa Balacco
regia di Francesco Frongia
con Ida Marinelli, Elena Ghiaurov, Cinzia Spanò e Osvaldo Roldan
costumi di Ferdinando Bruni
luci e suono di Nando Frigerio
produzione Teatro dell’Elfo
con il sostegno di Next