ESTER FORMATO | Sotto una gigantesca stella cometa gli attori tutti in nero e bendati, disposti in fila sul proscenio, declamano del “Natale in casa Cupiello”, le didascalie, le battute, gli accenti. Al centro, vestito di bianco, Luca Cupiello, l’unico a non enunciare le didascalie delle proprie battute, delegate invece alla voce collettiva degli altri. È la transizione da commedia (pirandelliana) a tragedia, transizione che lo stesso Pirandello giudicava impossibile per l’uomo contemporaneo. Abbiamo, quindi, un coro che trasforma quasi tutto il I atto originario in prologo e che sta ritto in proscenio, un unico protagonista che “scrive” nell’aria il suo destino trovando negli accenti delle parole (come nella metrica classica) una musicalità precisa che incarna lo spirito della storia . La preservazione di un testo nella sua interezza, vale a dire nel suo pregio letterario, ed il relativo slittamento nella tragedia fanno della parola un afflato universale, nel tentativo di sradicare Eduardo dalla riproduzione di se stesso, dall’ereditarietà in virtù della quale le sue opere continuano a stare in scena nello sterile tentativo di essere quasi uguale all’originale. Siamo in un tempo in cui esse si conservano ancora attraverso i suoi eredi (il “Ninnillo” del Natale, Luca De Filippo, è morto da troppo poco tempo), e siamo in un luogo dove la mole del suo teatro è stata avvertita come troppo grande da poter intercettarne gli echi e metterli in discussione, come dimostra la stessa sperimentazione napoletana che circa trent’anni fa è stata via collaterale, scarsamente percepita come reale e vivo scontro con l’imponente figura paterna che è Eduardo.
Antonio Latella e Linda Dalisi non agiscono apparentemente sul testo, decidono che quest’abito filologico che lo spettatore può conoscere quasi a memoria, lo accompagni dinanzi ad un totale svuotamento della scena da ogni sorta di simbolo o riferimento visivo riconoscibile all’immaginario collettivo. L’allineamento sul proscenio degli interpreti inizia a sfaldarsi progressivamente dal momento in cui Ninuccia distrugge il presepe, ma tale azione non trova nessuna corrispondenza visiva con il ricordo che tutti hanno delle storiche messe in scena. Il presepe. Ecco un altro grande elemento chiave sul quale Latella lavora in profondità e in absentia. Il Presepe non c’è, eppure la domanda che Luca fa a Tommasino (bravissimo Lino Musella) “T’è piace ‘o Presebbio?” rimane insistente. Il presepe, dunque, impalpabile, evocato, onnipresente ed al contempo invisibile, è il polisemantico simbolo della commedia di De Filippo che resta tale anche in Latella; alibi di un pater familias che tale non è, ridotto ad un (anti)eroe tragico, unico personaggio di una finzione-farsa – come lo è lo stesso presepe – che si è costruito da sé e suggellata da un giocoforza di rapporti familiari di cui continua ad essere spettatore, egli è del tutto privo di un raggio d’azione. Inseguitore di una stella gigante e luminosa che gli sottrae alla coscienza la verità, persevera nel suo autismo costante che determina tutto il secondo atto in cui l’originale voce di Eduardo a loop ripete l’ultima battuta del primo “Mo miettete a fa’ o Presebbio n’ata vota. Cominciamo da capo tutto” mentre i personaggi si muovono concitatamente in questa enorme scatola nera che è il nudo assito. Vi troneggia ora un enorme carro funebre trainato da Concetta (una magnetica Monica Piseddu), mentre altri arrecano su di loro carcasse di animali giganti, emblemi della tradizione natalizia si, ma anche larve di quella teatrale e culturale di una città che guarda all’indietro, schiacciata dalla sua condizione periferica rispetto al continente europeo e, al contempo, fieramente stipata nel suo bagaglio antropologico. Il presepe non c’è, ma come accade nell’allestimento originario, è – e forse ancor di più – un’ossessione, perché un peso etico, peso culturale, peso di un assetto familiare, quindi sociale, specchio deformato e sfaldato delle abitudini quotidiane e dei rapporti che regolano questa micro-società.Ma un peso è anche questo misero padre, che preferisce essere trascinato entro quel carro, presagio di un compimento imminente e tragico mal reggendo il suo ruolo in un contesto che esige ancora il patriarcato. Il secondo atto è riscritto scenicamente come una rapsodia, il ritmo si fa concitato; i personaggi conquistano ampio spazio intorno al carro, come a voler affrancarsi dai claustrofobici spazi imposti dalle riproduzioni d’interni di repertorio. Quello che viene ora espresso è la sotterranea cattività che si annida in ciascuno di loro, ed al posto del focolare domestico, degli arredi, dei suppellettili viaggiano sulla scena le carcasse di animali che schiacciano i corpi di questi minuscoli omini e donnine alle prese con una tragedia quotidiana senza definizione di luogo né di tempo; infine Ninetta è spintonata dall’amante e dal marito e da questi ne è abusata, Concetta inerme si accascia accanto al carro, poi vi ripone tutti gli animali e lo pulisce accuratamente: è questo l’interno dell’appartamento napoletano che Latella sottrae allo sguardo smarrito dello spettatore.
Ma è l’ultimo atto che offre una cesura netta, alla luce di una natività inedita che viene ricomposta pezzo per pezzo con l’agonizzante Luca deposto in una mangiatoia, e la piccola comunità dei condomini vestita a lutto che gli si distribuisce intorno. Raffaele, il portiere, è calato dall’alto come l’angelo Gabriele e recita gran parte delle battute del terzo atto, riducendo la partitura drammaturgica a vantaggio di quella musicale cantata dal medico – ultimo personaggio sinora bendato, ad entrare in scena – e tratta dal “Barbiere di Siviglia”, in rifermento al Don Basilio cui Luca allude nel suo delirio. Allucinazioni, spettri visivi e sonori acquistano una vaga corporeità, sino a fare in modo che tutta la “realtà” fatta di parole, battute, aneddoti, di piccoli scorci di vita quotidiana così brulicanti nella parola eduardiana, perda di consistenza. Lucida, però, l’estrema domanda “t’e piace ‘o Presebbio?” alla quale la risposta filiale commossa non giunge, giunge, invece, la presa di coscienza di una libertà indefinibile cui ogni figlio anela per sganciarsi da ogni sorta di eredità che lo rende vincolato alla figura paterna. Libertà indefinibile è anche quella che avvertiamo quando ci rapportiamo ad un’opera universale che non incaselliamo in un contesto specifico; libertà indefinibile è quando in essa scorgiamo strumenti cognitivi che ci aiutino a legare la nostra storia individuale a quella collettiva, umana.
Tutto quel che fa Latella – cui presumibilmente vi si sta preparando già con “C’è del pianto in queste lacrime” – è suggerire un confronto altro con Eduardo, non attraverso un discorso sperimentale, ma entro un contesto produttivo e teatrale istituzionalizzato – prodotto, appunto, da Teatro di Roma -. Per questo motivo, “Natale in casa Cupiello” continua, replica dopo replica, a dividere il pubblico. In questo così atteso passaggio al San Ferdinando, appartenuto alla famiglia De Filippo, ci si rende conto che il processo di destrutturazione operato da Latella, non testuale, ma visiva affronta deliberatamente la questione centrale: l’appartenenza di Eduardo ad un patrimonio antropologico non come drammaturgo o grande letterato, ma come maschera, come concetto teatrale a sé, in quanto tale riconosciuto da ogni strato sociale attraverso immaginario collettivo, dotato di simboli propri. Nel confrontarsi con l’esser maschera e con un teatro che, quindi, si riconosce solo nel costante riprodursi dei suoi elementi caratteristici, il regista stabiese prova a sostituirvi, a sua volta, ne surroga o deforma i simboli, animali della Natività, della Festa che si sovrappongono talvolta ai protagonisti invitando lo spettatore ad un ulteriore atto di reinterpretazione, e riscrivendo sopra quella originaria, una drammaturgia visiva che trasformi gli stereotipi eduardiani. Forse il limite risiede nel sdoganare riferimenti ormai antropologici restando circoscritti in una dimensione ugualmente simbolica, ma il discorso è ancora agli esordi: il simbolo sembra, per adesso, l’unico veicolo per porre in evidenza l’universalità di un linguaggio – la parola dello scrittore – che per molti è ancora dialetto. Siamo forse ancora all’inizio di una messa in discussione più vasta.
La sfida più grande, perciò, è far diventare il discorso di un singolo quello di tanti, affinché non uno né pochi portino avanti il confronto costante con questioni così insite nel nostro patrimonio genetico, perché tale confronto non diventi autarchico, slogan o esclusivo stile di un artista, ma sia un dialogo condiviso, un cammino da fare insieme, artisti, spettatori e critici appassionati.
NATALE IN CASA CUPIELLO
di Eduardo De Filippo
regia Antonio Latella
con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone, Emilio Vacca, Alessandra Borgia
drammaturga del progetto Linda Dalisi
scene Simone Mannino e Simona D’Amico
costumi Fabio Sonnino
luci Simone De Angelis
musiche Franco Visioli
assistenti alla regia Brunella Giolivo, Irene Di Lelio
assistente alla regia nella prima edizione Michele Mele
produzione Teatro di Roma