SILVIA FERRARI | C’è un fermento coreutico importante in Sardegna. Autunno Danza è uno dei festival protagonisti. Esiste da più di vent’anni e, insieme al Find – Festival Internazionale Nuova Danza, rappresenta una delle realtà virtuose dell’isola per quanto riguarda la danza.
Autunno Danza è iniziato l’1 ottobre ed è terminato il 20 novembre. Due mesi, quelli preinvernali, ricchi di appuntamenti in diversi spazi cagliaritani tra i quali una mansarda con le travi in legno che è un piccolo scrigno. Si chiama La Fucina. Fucina di idee, di sguardi, di possibilità.
In quella fucina sono passati nelle scorse settimane voci e respiri del panorama della danza performativa. Tra questi “Drumming solo” di Daniele Albanese, “El mandala del conejo” di Ticonzero e “Being in here, in what will no longer be” di Alessandro Carboni. Tre lavori diversi che nel weekend dal 4 al 6 novembre hanno proposto approcci differenti alle possibilità della danza in relazione allo spazio scenico e ad altri strumenti espressivi.
“Drumming solo” di Daniele Albanese (fondatore nel 2002 della Compagnia Stalker) è un assolo scandito dal ritmo arcaico dei tamburi. Al centro l’idea di intensità, ritmata dalle percussioni e ingabbiata in uno spazio quadrato delimitato da luci rosse. Albanese indaga le possibilità del corpo attraverso la demarcazione del movimento. Non ci sono confini fisici, se non quelli immaginati dal quadrato di luce che a terra compare e scompare. Sapientemente, Albanese proietta in quella limitazione –dentro e fuori – tutta la sua indagine sulla spazialità. Quasi a mettere alla prova i limiti della mente e la sua capacità di disegnare e creare lo spazio fisico.
Il movimento di Albanese è, nella sua ripetizione di gesti, dolce, fluido, armonico. L’equilibrio da creare è tra l’appropriazione netta e incisiva dello spazio come gabbia e la libertà e morbidezza del movimento, in grado di oltrepassare i confini. Il risultato finale mixa efficacemente la leggerezza del corpo di Albanese all’intensità battuta dai tamburi dei Modular Quartet, quattro giovani percussionisti nati nel Conservatorio di Cagliari.
Più concettuale, invece, “El mandala del conejo” di Ticonzero, un progetto di Alessandro Olla e Vera Livia Garcia che mescola efficacemente vari linguaggi, dalla danza al video al cinema. L’ispirazione è dichiaratamente lynchiana a partire dal titolo, che cita la famosa serie “Rabbits!” del regista statunitense David Lynch. In scena la brava Vera Livia Garcia è una surrealista e a tratti angosciante moltiplicazione di se stessa. Grazie ad un efficace utilizzo dei video, la sua immagine viene duplicata continuamente, attraverso la sua ombra, attraverso il suo corpo proiettato e attraverso il suo corpo fisico che cambia incessantemente. Trionfano i temi portanti della drammaturgia di Lynch: l’alienazione, la crisi di identità, la perdita di sé. «Non so se sogno quando vivo o se vivo quando sogno».
La narrazione non è sempre immediatamente intellegibile, ma rende lo spettacolo efficace nel creare un percorso surrealista che passa attraverso il corpo della performer mescolando quotidianità e sogno, realtà e creazione mentale.
Un mandala appunto, in cui il cosmo da creare è il mondo interiore dello spettatore, iniziato alla realtà attraverso il mondo onirico. Un lavoro con molti spunti interessanti, che andrebbe forse sfoltito nella parte finale: rispetto al ritmo iniziale, risulta leggermente sotto tono.
Diverso, ma sempre interattivo l’utilizzo del video che fa il regista sardo Alessandro Carboni nella sua performance “Being in here, in what will no longer be”. In scena, in un doppio tempo di realizzazione, c’è una semiotica urbana che prende vita attraverso oggetti e corpi. A fare da fil rouge sono le riprese che Carboni ha fatto degli scontri e delle proteste avvenute ad Hong Kong nel quartiere di Mong Kok a partire da settembre 2014 (la cosidetta Rivoluzione degli ombrelli).
Nonostante il tema possa lasciarlo intuire, non c’è intento politico o sociale nel suo lavoro. Al centro della riflessione c’è solo il corpo umano e la sua capacità di interagire con lo spazio urbano, di occuparlo e ridefinirlo. La situazione scelta fa da sfondo, si offre come contesto ideale non intrinsecamente per ciò che vi succede, ma perché condizione di aggregazione di esseri umani e movimenti tra cui scegliere.
Carboni in una prima fase delinea corpi attraverso lo spostamento di oggetti. In breve tempo diventa lui stesso artefice del movimento e, in un climax ascendente, lo spettatore scopre che ad ogni suo gesto corrisponde un gesto preciso di qualcuno dei soggetti delle riprese che sfilano sullo sfondo: poliziotti, curiosi, manifestanti. Non è rilevante chi sia o cosa faccia il soggetto scelto, ma la fotografia del suo movimento, in uno zoom coreografico che è addensamento di segni, addizione di pose e azioni.
Un lavoro interessante che, per scelta esplicita, non ricerca coinvolgimento emotivo, ma che ha il merito di indagare la città e i suoi abitanti e il loro essere, anche senza intento, quotidiana sorgente di gesti coreografici.