RENZO FRANCABANDERA ed ELENA SCOLARI | RF: No, dico, parliamone. A me è piaciuto per molti versi e ci sono cose su cui ho da riflettere. Magari se lo scorriamo di nuovo insieme riesco a mettere a fuoco bene ciò su cui mi sento in sintonia e ciò su cui sono meno empatico.
ES: La macchina per scrivere. La vecchia macchina per scrivere sulla bella locandina dello spettacolo Collaborators, che abbiamo appena visto al Teatro Filodrammatici di Milano. Mi piace partire da qui. Da uno strumento che – mutatis mutandis – è ciò che in tante tarde serate noi, appassionato proletariato critico, usiamo picchiettando le nostre idee sui tasti. Il rumore era più suggestivo di quello delle tastiere d’oggi, indubbiamente, ma i polpastrelli sulle lettere a formare i pensieri sono ancora una piccola emozione.
E soprattutto a noi non ci censura nessuno.
RF: Beh io ora su questo non sarei sicurissimo. Il modo oscuro in cui la rete crea e annulla audience a un banalissimo post, i modi tutti digital-alchemici della diffusione dei contenuti… E poi, il problema dell’oggi, è l’autocensura, non la censura. Il coraggio di dire, o di accettare che qualcosa venga detto. Questo coraggio sta sparendo. Siamo ricattati: dalle oligarchie, dai terroristi, dalle paure, perfino dalle macchine.
ES: Vero, però non siamo nella Russia dittatoriale alla fine degli anni ’30, quando il Teatro d’Arte di Mosca commissiona a Michail Bulgakov (Tommaso Amadio) un testo teatrale sul giovane Stalin (Alberto Mancioppi) in occasione del suo 60° compleanno. E fin qui è storia.
Lo scrittore è sempre stato avverso al regime e il suo capolavoro Il maestro e Margherita narra proprio di un drammaturgo perseguitato dalle autorità sovietiche. Bulgakov era faro di tanti giovani intellettuali che ne ammiravano l’indipendenza, come piegarsi ad un richiesta del genere? Già, ma il nostro Michail era anche squattrinato, in scena vediamo il suo squallido appartamentino scrostato, diviso con altre tre persone, oltre alla moglie Yelena (Emanuela Caruso). Ci stava anche un operaio nella credenza (Michele Basile).
E così, per il solito vil denaro, l’autore accetta, benché non convinto. Si deve campare, la Russia è un paese freddo e senza caffè, caro tovarish Francabandera.
RF: La scena di Erika Carretta si adatta allo spazio irregolare del palcoscenico trapezoidale del Filodrammatici, una scommessa per ogni allestimento. Il tuo sguardo mi pare corretto rimandando al codice del realismo sovietico, che tanto caro fu al periodo stalianiano sotto la “zelante” mano di Ždanov. Devo dire che qui, ad esempio, le luci di Fabrizio Visconti avrebbero potuto osare assai di più a mio parere, oltre l’alternanza fra luci calde del vissuto domestico del protagonista e fredde dei momenti di incontro-scontro col potere. Qui qualche spot ben piazzato avrebbe potuto amplificare il rimando al cinematografico socialista, con ombre lunghe, spazi di buio. L’estetica formale del regime, che il manifesto dello spettacolo richiama, poteva riverberare in scena con maggior incisività: una luce dal basso, qualche ombra socialista…
Tarkovskij sarebbe stato contento, ed inoltre, concettualmente, questo avrebbe rotto la meccanica del luogo fisico per trasformarlo più gelidamente in luogo mentale all’occorrenza, non solo con la luce ghiaccio sulla scrivania di Stalin. Ma in fondo questa era anche una partita che si giocava con la regia, e non ho elementi per sapere dove siano avvenute le scelte su tutto questo. Tornando comunque a Ždanov, che nel periodo staliniano fu l’arbitro della linea culturale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, forse era lui più che Stalin l’incarnazione della censura. Ma convengo che una drammaturgia con il focus sul conflitto fra cultura e burocrazia sorda poteva avere un appeal nullo, mentre il conflitto fra cultura e potere incarnato dalle sue figure più emblematiche è più di mercato. Non per niente Kafka le sue opere finì per tenerle nel cassetto. Ma qui siamo alla drammaturgia…
ES: Il testo è dell’inglese John Hodge (noto per la sceneggiatura di Trainspotting). A me è parso un bel testo, intelligente e in cui l’idea centrale è la più bella: lo scambio di ruoli tra Bulgakov e il dittatore, quest’ultimo gli dà appuntamento in una stanzuccia segreta sotto il Cremlino e propone di dargli una mano col copione in cambio di aiuto con il suo lavoro di statista. Qui comincia il percorso psicologico di immedesimazione col mostro, lo scrittore comincia ad entrare nella testa del dittatore e prende decisioni politiche, difficili, al posto suo, firma documenti, suggerisce risposte ai problemi economici…
RF: Sì, intrigante, sebbene la lunghezza del primo dei due atti (80 dei 130 minuti totali di recitato) si avverta. E questo anche perché la seconda metà del primo atto, quella dell’immedesimazione appunto, finisce per incorporare una dinamica prevedibile, che riduce la tridimensionalità dei caratteri. Il secondo atto è più travolgente, e non solo per gli eventi, ma proprio perché l’inaspettato ha più spazio. Per me più ispirato, di un bello che ha infatti consentito maggior sviluppo dei caratteri, e non dico solo dei due protagonisti principali ma anche di tutte le necessarie (ed in alcuni casi anche intelligentemente immaginifiche) figure che completano la vicenda.
ES: Il Bulgakov di Tommaso Amadio appare stranito, frastornato dalla galvanizzazione inevitabile che viene dal potere, l’attore si trova a difendere le posizioni governative del Politburo (da lui stesso prese!) di fronte agli amici che lo guardano perplessi. Lo Stalin di Alberto Mancioppi è simpatico, accidenti al dittatore…
Io trovo molto interessante (e attuale) cercare di capire quanto è fragile il confine tra l’essere contro e il trovare giustificazioni a scelte impopolari quando si passa dalla parte di chi guida, spesso senza valutare conseguenze anche nefaste.
RF: Bene gli attori. Direi tutti. Una buona sensazione di lavoro di squadra. Personalmente oltre ai protagonisti ho trovato interessante la presenza scenica di Marco Cacciola con il suo burocrate. Lo so, lo so, sarò fissato, ma questo elemento della burocrazia sorda e sordida è una delle chiavi di lettura ulteriori, tanto che Fornasari stesso sceglie per la sua (marginale) presenza in scena un personaggio davvero kafkiano. Ma, fin qui, mi hai detto le cose che ti sono piaciute, i grandi temi. Ci saranno delle cose che secondo te potevano essere sviluppate diversamente?
ES: Fin qui, hai ragione, ho fatto prevalere l’analisi dei contenuti; dal punto di vista strettamente teatrale io direi che lo spettacolo è talmente denso da risultare costretto nello spazio del Teatro Filodrammatici, un palco che risulta angusto, per un cast di 14 attori e due ore abbondanti di durata, ma è anche coerente con l’idea di restrizione fisica e intellettuale che viene messa in scena. È un po’ ripetitivo l’andirivieni di Bulgakov da casa a stanza divisa con Stalin: senza fare cambi di scena non era facile spostare l’attenzione dello spettatore e mantenere l’ordine, visivo e registico, con tanti attori coinvolti.
RF: Lo spazio in effetti rende meno agevole anche l’inserto tragico-onirico che in alcuni momenti viene sviluppato, quando si vuole raccontare il dramma dell’arte moribonda nell’asfissia del febbrile delirio psicotico. Lo si fa attraverso la figura di Molière, che appare sul letto di morte: la scena fissa obbliga a salti mortali per ricavare uno spazio capace di isolarsi dal contesto. Qui le luci fanno davvero i miracoli nel portare lo sguardo solo sull’elemento distonico, e capiamo che alla fine sarebbe stato un piano luci da ingegneria nucleare se avessimo voluto pure le ombre espressioniste… Detto questo, un’ultima cosa sul senso profondo dell’0pera: si tratta, per Collaborators, della terza o quarta drammaturgia scelta da Fornasari/Amadio intorno al tema del piegarsi della volontà alle necessità materiali. Solo per tornare alla stagione scorsa anche Parassiti fotonici di Philip Ridley indagava fino a che punto l’uomo può spingere la sua morale.
ES: Anche in questo lavoro, ed è un bene che su questo si rifletta, ci si interroga sulla finzione, sugli sdoppiamenti che a noi tutti possono capitare nella vita. Per fortuna nessuno ci chiederà di scambiarci con Erdogan o Putin, ma Collaborators offre considerazioni argute su ciò che ci aspettiamo debba essere il rapporto tra artista e potere. In ogni epoca.
Se qualcuno ci offre un autista, caffè e acqua calda quando nessuno in città li ha, potremmo scoprirci meno integri di quanto amiamo pensarci.
È tutta questione di Prospettiva. Nevskij.
RF: Corretto. E nell’epoca del bombardamento mediatico “fino a quando gli uomini non avranno imparato a discernere, sotto qualunque frase, dichiarazione e promessa morale, religiosa, politica e sociale, gli interessi di queste o quelle classi, essi in politica saranno sempre, come sono sempre stati, vittime ingenue degli inganni e delle illusioni”. Chiudere con il compagno Lenin mi pareva necessario.
ES: Da sotto il Cremlino, spasiba.
COLLABORATORS
di John Hodge | traduzione e regia Bruno Fornasari | con Tommaso Amadio, Emanuele Arrigazzi, Michele Basile, Marco Cacciola, Emanuela Caruso, Bruno Fornasari, Enzo Giraldo, Marta Lucini, Alberto Mancioppi, Daniele Profeta, Chiara Serangeli, Umberto Terruso, Elisabetta Torlasco, Antonio Valentino | scene e costumi Erika Carretta | disegno luci Fabrizio Visconti | musiche originali Rossella Spinosa, eseguite da New MADE Ensemble | assistenti alla regia Chiara Serangeli e Filippo Bedeschi | assistente costumista Linda Muraro | équipe tecnica Giuliano Bottacin, Cristiano Cramerotti, Andrea Diana | realizzazione scene Silvia Trevisani | produzione Teatro Filodrammatici di Milano per il progetto 220 anni senza perdere il Filo… promosso da Accademia dei Filodrammatici
realizzazione costumi Sartoria Teatrale Arrigo | maschere Zorba Officine Creative | acconciature e trucco Pier Benedetto, Alessandro Buson | attrezzeria Rancati | calzature Calzature Epoca | stampe Microspot s.r.l. | si ringrazia il Liceo Tito Livio di Milano