Il generale @ Stefano Cantini
Il generale @ Stefano Cantini

MATTEO BRIGHENTI | I soldati sono -ini e il popolo un branco di pecore: l’uomo (lasciato) solo al comando può tutto e il contrario di tutto, perché tutto è diventato il contrario di tutto. La realtà, a questa latitudine, è un ossimoro. Vive una contraddizione in termini e produce a cascata un’escalation di paradossi. Prima e misura di paragone della congerie di conclusioni che accettiamo, pur derivando da ragionamenti evidentemente inaccettabili, è l’invenzione della ‘guerra di pace’.
Uno Stato di cose, un dato di fatto che sono il cielo e deserto tra cui aspetta, ordina, sbraita, vaneggia, riflette Il Generale, scritto con acuta sagacia dal giovane Emanuele Aldrovandi, diretto e interpretato con naturalezza e precisione da Ciro Masella. Le cause sono irreparabili, forse persino immutabili, perché già avvenute: meglio concentrarsi sugli effetti, ancora in corso sotto i nostri occhi, sui comandi che appaiono irragionevoli, eppure devono essere accettati, e su quelli che, invece, appaiono ragionevoli, ma portano il marchio dell’incoerenza.
Lo spettacolo di Aldrovandi, Premio Fersen alla drammaturgia 2013, Premio Tragos 2010 e Premio Calindri 2010, ci sospende dunque nel dopo, tra lo sparo e il bersaglio di un’innominata potenza mondiale che ha invaso militarmente un piccolo Stato considerato responsabile di attentati terroristici. Dal fondo sala del Teatro di Rifredi di Firenze, dove si dà in prima nazionale la prima messinscena in assoluto del testo, arriva una soldatessa (Giulia Eugeni). Ride, non la smette di ridere, e fa cenno di sì con la testa e le mani a qualcosa che non abbiamo detto: i selvaggi non sono tutti nemici, ma tutti i nemici vengono da territori (di) selvaggi. Per fortuna, il generale a capo della spedizione è il migliore che possa esserci.
Non è difficile riconoscere, nella lente incisiva della rappresentazione, gli Stati Uniti, l’Iraq e la ‘lotta al terrorismo’: un flash illumina la soldatessa che tiene al guinzaglio un detenuto nudo, in posa come Lynndie England negli scatti nel carcere di Abu Ghraib. Immagini, lampi di un conflitto che però non arriva mai sulla scena, se non nei dialoghi serrati tra il generale e il suo tenente (Eugenio Nocciolini). L’unica eco degli scontri è una struttura rigida che ricorda un fungo atomico, una bomba fermata, fissata nel momento dell’esplosione: una scheggia è la scrivania del generale, con sopra la sua 24 ore, e un telefono fucsia in linea diretta con il presidente.
Siamo infatti più dalle parti de Il dottor Stranamore che di Apocalipse Now, di M*A*S*H che di Platoon: l’iperbole, il tragicomico, il parossismo, fanno emergere il ridicolo dei personaggi, rivelando, soprattutto, la nostra assurdità nel prestare attenzione a ciò che non può essere neanche lontanamente pensato, perché privo di ogni fondamento nella ragione, e quindi intrinsecamente contraddittorio. Le battute esplodono un secondo dopo l’atterraggio in platea, prima deve detonare la comprensione. L’innesco è la riflessione.
Come ci siamo arrivati? Il Generale non lo dice, ma ci siamo arrivati, questo è il punto, e il potente di turno può chiederci di regalare i mezzi corazzati ai selvaggi per ingraziarseli, di non portare armi né indossare divise per confonderli, di sospendere i turni di guardia per non farsi attaccare. Ciro Masella è un fuoco continuo, un mare in tempesta contro il tenente, che ha la forza di un secchiello, confermando che l’ordine esiste se qualcuno lo esegue, per rispondere alla domanda di Manuela Margagliotta su Paper Street: il potere prospera sul servilismo ottuso e lo zelo cieco dei sottoposti.

Foto di Stefano Cantini
Foto di Stefano Cantini

Chiuso nel suo ufficio-bunker, il generale annaffia le piante e comanda le ostilità non visto, come il telecomando fa con il carrarmatino che irrompe sul palco e spara sul pubblico. Il fungo-bomba, adesso, assomiglia a un ombrellone per la villeggiatura, composto di tanti ombrellini per cocktail di morte e stupidità, un pensiero che da un tronco unilaterale si apre a grappolo, a raggiera, in tante e tante decisioni assurde che ricadono su se stesse. Dalla notte al giorno, dall’alba al tramonto.
Il generale c’è, è una scheggia impazzita di una personale campagna contro l’Illuminismo che – dichiara ispirato – ci ha allontanati dalla fede, ma ci fa, anche, e lo confessa alla soldatessa (al tenente più tardi, a cose già fatte e ottenute), l’unica che ha osato sfidarlo, peraltro goffamente. Ha un obiettivo superiore, che nessuno capisce eccetto lui: salvare i nemici e uccidere gli amici. È un pacifista, che pur di sconfiggere la brutalità della guerra è disposto a usare una violenza ancora più estrema e radicale. Contro il proprio esercito.
Il Generale è un grande gioco di ruolo e di società, una sceneggiata al vetriolo dove Ciro Masella è sia il banco che il giocatore e non finge mai, persona e funzione (i nomi non esistono, esistono solo le funzioni) sono maschere dello stesso personaggio. Mellifluo e tenero, greve e curiale, assiste agli eventi quasi con noncuranza, sembra che niente lo tocchi per davvero, niente lo riguardi da vicino. Difatti, nella fine del suo nuovo inizio si specchia, ma non c’è alcuna immagine riflessa: il generale è un’idea distorta, un pensiero bislacco, un modus operandi che si autoalimenta. E vince anche quando perde.
Perciò, non abbiamo via di scampo. È questa la bruciante e paradossale conclusione di chi cerca negli altri oltreconfine il nemico che ospita dentro di sé, tanto da assomigliarsi come due gocce di sangue.

 

Il Generale
di Emanuele Aldrovandi
regia di Ciro Masella
con Ciro Masella e Eugenio Nocciolini, Giulia Eugeni
scena Federico Biancalani, costumi Micol Medda
produzione Pupi e Fresedde – Teatro di Rifredi | Uthopia/tra Cielo e Terra
Visto venerdì 2 dicembre 2016, Teatro di Rifredi, Firenze.

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