unnamed-1.jpgNANE CANTATORE | Prima di mandare in onda i primi sei episodi della saga di Guerre stellari, la 8 ha trasmesso un documentario del 2007, Star Wars: the Legacy Revealed. Si tratta, ovviamente, di un passaggio chiave all’interno di quella che si configura come una campagna pubblicitaria per l’uscita di Rogue One, il primo spin-off cinematografico della saga, a sua volta legato alla strategia di massimizzazione del prodotto della Disney che, dopo aver acquisito la Lucasfilm per un po’ più di 4 miliardi di dollari, ha deciso di far uscire un film all’anno, tra episodi principali e spin-off. Si tratta di un’accelerazione decisamente drastica, se si considera che la prima trilogia è uscita al ritmo di un film ogni tre anni e che ne sono passati 16 dalla prima alla seconda, che ha mantenuto la cadenza triennale; proprio questa fretta di mettere a profitto l’investimento, del resto, è la ragione per cui Lucas ha dichiarato di aver venduto la sua creatura a degli “schiavisti bianchi”.

Schiavisti che, comunque, hanno ben compreso in che modo industrializzare la produzione di miti, come osservava acutamente un articolo dell’Economist. Perché Guerre Stellari è, Lucas lo sa bene e non lo ha mai nascosto, essenzialmente una mitologia (post)moderna, costruita a tavolino seguendo le istruzioni dell’Eroe dai mille volti di Joseph Campbell, in cui vengono descritte tutte le articolazioni fondamentali del viaggio dell’eroe, forma essenziale del racconto mitico in ogni cultura. Proprio questa aderenza a strutture narrative transculturali è la ragione del successo planetario di Guerre Stellari: si tratta, in fondo, della prima grande narrazione prodotta negli Stati Uniti a non essere esplicitamente americana. Lo stesso Star Trek, con tutto il suo cosmopolitismo postnazionalista e postrazziale, in fondo, è la rappresentazione di un progetto specifico, quello della sinistra liberal americana a partire dagli anni Sessanta, che sognava un mondo futuro unito ma comunque solidamente ancorato ai valori democratici e progressisti che questa stessa parte identificava come l’essenza della sua America, i cui valori erano tanto potenti da trascendere ogni nazionalità. È l’America di Bob Kennedy, di Martin Luther King, magari di Bernie Sanders e certamente non quella di Reagan o di Trump, ma sempre e comunque l’America, incarnata da quel sano ragazzone di buoni principi del capitano Kirk, nato a Riverside, Iowa.

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Si capisce così assai bene il senso del documentario trasmesso dalla 8. Un documentario che è più che altro un inventario, dato che elenca tutte le possibili citazioni e ogni riferimento culturale, alto o basso, nei primi sei episodi della saga: dal fulmine di Zeus che avrebbe ispirato la spada laser a Medea come matrice delle due principesse Leila e Padme, fino al rapporto tra Chirone ed Eracle come modello per quello tra i due Skywalker e i rispettivi mentori, per citarne solo alcuni. Accanto a questa sfilata di riferimenti colti, e a un bel po’ di controparti pop (dai western a Harry Potter, dal Signore degli Anelli ai Tre Moschettieri), il documentario presenta un bell’assortimento di esperti, scelti con un criterio senz’altro inclusivo ma almeno altrettanto curioso, visto che, accanto a registi come Peter Jackson o J.J. Abrams, a studiosi di miti e letteratura come Joan Breton Connelly, Jonathan Young e John Lyden o di cultura moderna come Camille Paglia, presentava il comico di sinistra Stephen Colbert e l’imbarazzante politico di destra Newt Gingrich. Un modo per ribadire la trasversalità del mito forgiato da Lucas, senz’altro; ma anche un riflesso di quella mania per l’accumulazione che percorre tutto il documentario, ossessionato dal moltiplicare riferimenti e endorsement di ogni tipo, mettendo tutto nel frullatore. Il messaggio è chiaro, per quanto elementare: Star Wars è fico perché c’è dentro un sacco di roba di prima qualità, come attestano professori di chiara fama, e perché piace a tutti, persino a un vecchio arnese come Newt Gignrich e a un hipster come JJ Abrams, e tutto questo perché è un mito, ve l’avevamo detto, no?

Questa insistenza sul sostrato mitico non è solo per far bella figura, ma è un modo per leggere l’andamento speculare delle prime due trilogie: da una parte, il cammino di formazione di Luke Skywalker, che porta la redenzione alla Galassia attraverso la Forza, dall’altro quello di Anakin, che aveva portato la Galassia all’asservimento attraverso il lato oscuro. In entrambi i casi, il cammino dell’eroe diventa la chiave di volta del destino collettivo. Per questo la narrazione si ripete: i miti traggono forza e legittimità dalla ripetizione, e conferma dalle varianti, a patto che la loro struttura di fondo e la loro matrice allegorica restino le stesse.

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Il bello è che, a giudicare da quanto visto finora della nuova gestione Disney, gli schiavisti bianchi hanno preso una direzione diversa: l’episodio 7 è una rielaborazione della prima trilogia, con continue strizzate d’occhio e autocitazioni che saltano a piè pari i riferimenti mitologici per pescare direttamente nell’immaginario pop creato dalla vecchia saga. Insomma, il meglio che se ne possa dire è che JJ Abrams ha rifatto il suo piccolo capolavoro Super8 con troppo budget. Al di là degli eventuali meriti dei prossimi film, una cosa sembra assodata: che quello di Star Wars è diventato, nella gestione Disney, un universo, esattamente come quello Marvel, nel quale possono essere inventate continuamente nuove storie, anche del tutto diverse come trame, intenti, registri e svolgimento. Un contenitore di storie, più che una narrazione specifica: un po’ come se, partendo dall’Odissea, si raccontassero le avventure di Polifemo o quelle di Circe. Insomma, viene meno la necessità di rispettare i percorsi canonici del mito, a favore della continuità con le caratteristiche dell’universo narrativo (in continua espansione) in cui si ambientano le storie. Ma questa, in poche parole, è la differenza tra mito e fantasy.