RENZO FRANCABANDERA | Alcune settimane fa, riflettendo sulla frequenza con cui il teatro (più degli altri media, e non è probabilmente un caso) affronta tematiche di genere, riportavamo una celebre frase attribuita a Charles Pierce: “Preferirei essere negro piuttosto che gay. Perché se sei negro non lo devi dire a tua madre”. Il confessare alla figura materna è ancora il grande taboo dell’omosessualità, se è vero che Saverio La Ruina lo sceglie come pretesto drammaturgico per la costruzione del suo nuovo spettacolo Masculu e Fìammina, che ha da poco debuttato al Piccolo Teatro di Milano dopo un primo reading a Il Garofano Verde, la rassegna di teatro omosessuale alla cui organizzazione da anni si dedica Rodolfo Di Giammarco a Roma.

Inutile qui dilungarsi sulla rilevanza della figura di La Ruina per il teatro di prosa italiano: cercheremo piuttosto di definire alcuni legami con il suo percorso, per comprendere la direzione della sua poetica. Masculu e Fìammina al di là della tematica di genere si iscrive perfettamente in un percorso di scrittura vocato al tema della privazione sentimentale, della ferita emotiva da delocalizzazione dell’amore: immaginiamo che i sentimenti siano prodotti di qualche fabbrica, e ci sia qualche solerte multinazionale che chiuda un qualche stabilimento e sposti chi ne è deprivato in un contesto umano al quale è alieno, dal quale vorrebbe fuggire, che lo ammala e condanna. E’ quello che l’artista ci conferma nel finale di questo spettacolo, quando invoca un’ipotetica ibernazione per essere poi risvegliato in una società “più gentile”.

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Il distopico trovarsi, invece, in una società incapace di accogliere la fragilità è in fondo il luogo letterario e poetico di La Ruina, attorno a cui ruota bene o male quasi tutta la sua produzione, fatta di figure sole anche quando in coppia, con nell’ultimo Polvere, che rompeva il ritmo dei suoi tanti e pluripremiati monologhi per sviluppare la pièce con un’alterità scenica.

Qui si torna alla presenza singola, più congeniale per molti versi alla costruzione testuale e al ritmo recitativo di La Ruina e probabilmente anche al tono intimo delle sue riflessioni, che sono un po’ confessioni, da ascoltare dall’altro lato della grata, e si sa, in genere chi si confessa è da solo.

In questi anni la sua scena è sempre rimasta povera di oggetti: il fuoco è sul narratore, sull’attore. In Masculu e Fìammina la sedia diventa un marmo di camposanto, e la luce delimita uno spazio circolare, innevato, dove l’attore arriva al tumulo materno. Siamo in un mondo ovattato, dove l’incontro inizia con il protagonista che rende visibile la foto della madre, pulendola dalla neve che la ricopre. Inizia un ovvio dialogo impossibile, che già di suo definirebbe la credibilità di chi lo pone in essere, se non ascritto a quei riti tutti meridionali di dialogo con l’oltretomba, con le anime del Purgatorio; ma qui il Purgatorio il protagonista lo vive in terra e quindi quest’anima defunta cui si rivolge, per ovvia scalata verso l’assoluto, è già in viaggio verso San Pietro, verso il Paradiso.
Il figlio, incapace di parlarle in vita, le confessa il suo Inferno terrestre, quello arrivato prima del Purgatorio dell’età matura, che lo ha pacificato con l’esistenza, con i suoi ritmi lenti, i piccoli gesti, l’abitudine al vuoto, ai grandi panorami, alle passeggiate, alle sporadiche compagnie.

L’Inferno è l’adolescenza e la gioventù in una provincia miserabile, che gli urla dietro “ricchiù! ricchiù!”, dove l’accettazione della diversità è un’utopia persino nei luoghi dell’utopia come una sezione di partito. Si fugge in un altrove dove la società è pronta, aperta e lì arriva l’incontro. Ma è un amore dal finale tragico, che segna il passaggio dall’illusione dell’amore alla disillusione della maturità triste.

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Dopo il primo tempo dell’adolescenza che permette di leggere sullo sfondo la Storia, quella degli anni Settanta, arriva il secondo tempo dell’età adulta, e poi, come di rado accade a teatro, arriva il terzo tempo, e ci parla della pacificazione (più o meno voluta) nella maturità e nell’età anziana. E’ raro arrivare in questo luogo della parola e dell’emozione e il drammaturgo e interprete sente quasi la necessità, nella versione che ha debuttato al Piccolo, di arrivarci con una levità che compensi della desolata solitudine, che giochi un po’ con una leggerezza che però in fondo non è una necessità cogente del testo, se poi il tema prescelto è quello dell’essere in un luogo di deprivazione emotiva e la direzione testuale non è sul tono della commedia. Sono forse decisioni, puntualizzazioni cui un testo arriva dopo essere stato pronunciato al pubblico per un certo tempo, nella ripetizione, nel rapporto con l’ascolto.

Nel complesso siamo ad un’opera di ritorno alla pratica del monologo, ma che sposta in certa parte la frontiera della scrittura di La Ruina verso il tentativo di una nota ironica che, dove raggiunta, risulta interessante, specie quando abbinata al surreale e non insistita.
Quella dell’ironia è un codice, una scrittura che necessariamente ha bisogno di una nuova pratica, dovendosi coniugare con le tematiche più care all’attore, ma anche con il pubblico, e persino con l’essere pensata, ma è forse lo squarcio più interessante sul linguaggio che quest’opera aggiunge ad un percorso in cui l’artista si muove con l’agio della mano esperta e consapevole delle proprie abilità, del tempo scenico misurato in anni e anni di repliche e monologhi. Insomma bella sfida, sarebbe a questo punto una commedia per La Ruina: il teatro è sfida, in fondo, a se stessi prima di tutto.

Masculu e Fìammina
di e con Saverio La Ruina
musiche originali Gianfranco De Franco
collaborazione alla regia Cecilia Foti
scene Cristina Ipsaro e Riccardo De Leo
disegno luci Dario De Luca e Mario Giordano
audio e luci Mario Giordano
organizzazione Settimio Pisano
produzione Scena Verticale

Il primo reading in fieri è stato presentato a settembre 2015 nell’ambito del festival Garofano Verde di Roma.