RENZO FRANCABANDERA | La memoria è fatta prima di tutto di odori. Di olfatto di ciprie primordiali, di annusamenti quando ancora siamo ciechi al mondo. L’odore del seno materno. L’orientarci olfattivo che crea una geografia del conosciuto. L’irresponsabilità dei gesti: l’infanzia, quello che ci lasciamo alle spalle, man mano che la crescita, l’età adulta costruisce i suoi muri. L’anno scorso, Dimistris Papaioannou ci ricordava al CRT di Milano come quei muri continuiamo a portarceli dietro, sulle spalle, diventano parte di noi e paiono sigillarci in un presente incapace di guardare indietro, uno stare di corto respiro, che ci avvicina senza pietà alla fine, l’attimo in cui, come alla nascita, torniamo soli.
Sullo stesso palcoscenico una recente replica di La stanza del tramontoAppunti sulla vita ordinaria di un mammifero testo di Lina Prosa portato in scena da Sara Donzelli e Giampaolo Gotti per la regia di Giorgio Zorcù ci fa riflettere in altro modo sull’esistenza come percorso a ritroso nella memoria, il vero regalo, in alcuni casi, del vivere, medicamento per le ferite, recupero olfattivo dell’identità primordiale.

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L’allestimento, una sorta di piccolo tragico del lessico famigliare si avvale della collaborazione alla drammaturgia e alla creazione dello spazio scenico di Claudia Sorace e Riccardo Fazi (Muta Imago).
La vicenda pensata da Lina Prosa ruota intorno all’incontro fra un fratello e una sorella nell’anticamera di un ambulatorio di ospedale; a definire lo spazio una parete grigia senza sbocchi e speranze, che grazie ad un gessetto diventa una sorta di lavagna polisemica, capace di accogliere sia una rappresentazione iconica dello spazio, con il disegno di una porta che dovrebbe dare accesso ad un oltre, alla stanza del nosocomio appunto, sia una rappresentazione simbolica affidata alla parola, scritta dalla interprete come fosse un murales. Nel breve spazio fra il proscenio e questo muro grigio, illuminato dal neon, l’incontro di due fratelli diversissimi: lui dal fare agile e disinvolto, lei costruita e impostata, mai rilassata e con un universo di recriminabili fraintendimenti e irrisolti che neanche davanti alla stanza d’ospedale, dove la madre vive i suoi ultimi momenti, trova modo di collassare; anzi, quell’universo pare piuttosto implodere in un buco nero sordo, proprio mentre dalla stanza che ci è occultata alla vista arrivano il respiro e il canto della madre morente. I due si incontrano dopo tanti anni di separazione, si conoscono e come non si fossero mai separati hanno ancora vivi e presenti gli irrisolti del loro vivere congiunti, che riaffiora in primo piano e poi, grazie ad un notevole e sostanziale cambio scenico, in un passato ancestrale al quale tutta la seconda parte del lavoro rimanda. I dialoghi e conflitti, i ricordi e le visioni dei due si perdono in uno spazio dell’identità che è travaso nell’altro, nelle fragilità che l’altro di noi conosce e riflette, ritornando agli stati unitari che l’essere entrambi orfani, di colpo, richiama.

“La stanza del tramonto”, già tradotto in francese da Jean-Paul Manganaro, è parte del progetto di scambio culturale italo-francese “Face à Face”. La testualità sempre più Mitteleuropea, nell’ispirazione compositiva, di Lina Prosa conserva la traccia di una femminilità ripetitiva e maniacale fino all’ossessione, stile Calamaro per riferirci a una composizione comunque assai diversa e distante ma capace di scandagliare memorie e fratture, e che viene affidata alla protagonista femminile, una ortoepica e molto classica Sara Donzelli, mentre lui rivela pian piano la sua fragilità in una scioltezza di maturità più pop, anche se inquadrata dalla vita.

Dalla luce fredda della prima parte si torna alle luci e alle ambientazioni oniriche ma reali di La stanza di M. o Madeleine, anzi, potremmo dire che l’immaginario di questa composizione quasi si situa idealmente in media re fra questi due allestimenti scenico performativi del duo Surace-Fazi, che comunque trovano familiarità fra la parola dell’autrice e i non detti di tono intimista che hanno caratterizzato la loro poetica.

Dal punto di vista dell’analisi, è indubbio che la seconda parte, quella della rimembranza quasi psicanalitica, tanto nella parte testuale che in quella delle scene e del lavoro registico-attorale, sia più ricca e in alcuni momenti davvero notevole, riportandoci ad un dolore silenzioso, da stanza della consolazione, da veglia al non più presente. Questo non più presente è, al contempo, quello che (chi) non c’è più e anche il passato, in un ricordarsi e ricordare nel quale tutti gli elementi di cui si faceva cenno riescono con lucida armonia a definire l’intorno e la sostanza.
Più laboriosa ed emotivamente meno accessibile la prima parte, dove un registro recitativo più “post-drammatico” e meno impostato (al di là della rigidità caratteriale) del personaggio femminile, avrebbe, a nostro avviso, restituito un’umanità ugualmente resistente al farsi facciata senza crepe, ma restituendoci anche una leggibilità del metatesto più profonda di quella che arriva quasi senza pause e che non lacera come la seconda, dove il lavoro fisico, ambientale e di parola sono ben risolti e intensi.

 

La stanza del tramonto
Appunti sulla vita ordinaria di un mammifero

di Lina Prosa
Con Sara Donzelli, Giampaolo Gotti
Collaborazione drammaturgia e spazio scenico Claudia Sorace e Riccardo Fazi
Costumi Marco Caboni
Collaborazione al progetto Anna Barbera, Centro Amazzone Palermo, Koïnè Languages, Transartistiques Parigi
cura Giorgio Zorcù

produzione Accademia Amiata Mutamenti, Regione Toscana