ESTER FORMATO | Nel programma della stagione la sinossi di “Peperoni difficili, la verità chiede di essere conosciuta” di Rosario Lisma esordisce con il richiamo ad Eduardo e Pirandello; e ciò pare innegabile se solo pensiamo a quanto ci sia dell’ultima parte de L’umorismo, che cinicamente si mette in bocca ad uno dei personaggi durante la storia. Tuttavia, l’autore approda alla rivelazione pirandelliana della verità su noi stessi – il sentimento del contrario, frutto della riflessione, àncora l’uomo moderno ad un inedito senso del tragico – con ulteriori spunti dalla teologia cristiana, dal Vangelo (“Cos’è la verità?”) che riflettono l’ambientazione assai circoscritta della vicenda e le sclerotiche visioni dei protagonisti che non garantiscono loro una vita autentica, così fra l’altro si chiama il saggio di Vito Mancuso che ha sollecitato Lisma nella stesura della commedia. Troppi spunti forse, che nonostante la coerenza contestuale e psicologica, rischiano in alcuni punti di sovraccaricare lo spettacolo che sviscera già questioni complesse.
La prima impressione, più globale, è che l’impianto naturalistico e classico della drammaturgia e della messa in scena, non siano casuali perché proprio grazie ad un intreccio sostanzialmente semplice ma ben articolato ne consegue una caratterizzazione ben definita dei personaggi. Gli abiti, il linguaggio, la gestualità, gli oggetti che ne contraddistinguono le identità, e le paranoie richiamano, strizzando l’occhio al realismo eduardiano, le rispettive strutture psicologiche che tra l’altro si fanno evidenti grazie alla linearità dei dialoghi.
La scena a quinte ristrette ospita il nostro sguardo in un moderno ambiente living di una graziosa canonica, minuziosamente arredata. È pomeriggio, le luci in sala come quelle in assito scandiscono con naturalezza la sequenza temporale conferendo alla scenografia un più completo realismo, reso ancor più evidente dalla compresenza del vano esterno del giardino e dai rumori che ne derivano. Giovanni (interpretato dallo stesso Rosario Lisma), parroco di una piccola provincia, è sul divano a sonnecchiare, infastidito dal pallone che i ragazzi gli buttano dentro dalla sua bella veranda. L’agognata tranquillità che ricerca a quell’ora ci dà immediatamente l’impressione di un’anima buona che prova a schivare le proprie irrequietudini. Quest’ultime riemergono all’arrivo di sua sorella Maria la cui totalizzante vocazione evangelica coltivata nella sua missione in Africa stride subito con quella abitudinaria e mediocre del fratello. Maria, interpretata dalla magnetica Anna Della Rosa, trasformata da una profonda scoperta dell’essenzialità con cui relazionarsi all’esistenza e alla realtà, non tollera più alcun filtro con il quale modificare la verità delle cose, finanche consolatori. In cerca di questi ultimi è invece Filippo (Andrea Narsi) che non accetta la perdita della moglie innamoratasi di un altro e attraverso continue e patetiche confessioni richieste all’amico prete, cerca di rifugiarsi in un comodo senso di colpa. Infine, a completare il quadrilatero dei personaggi i cui nomi alludono chiaramente al Nuovo Testamento, c’è Pietro, fratello di Filippo, interpretato egregiamente da Ugo Giacomazzi. Uomo colto, elegante, affascinante affabulatore, analista finanziario, affetto da una forte spasticità. Ispirandosi ad un aneddoto di un amico, il regista rende la disabilità fisica una parabola tagliente attraverso la quale poter riflettere sul concetto di verità. A Maria e Filippo che lo riconoscono obiettivamente come uomo malato, Giovanni oppone la sua consolatoria visione, guardando alla brillantezza ed intelligenza dell’amico che al suo limite. Di converso, Pietro sembra aver rimosso completamente il suo stato ed è da tale rimozione che fa da contraltare alla presenza della sua fisicità nello spazio scenico, che s’innesta uno spudorato meccanismo comico. Ovviamente Peperoni difficili non è uno spettacolo sull’handicap. Viceversa, se i personaggi mancassero di un franco realismo, sarebbe un pedissequo esempio de l’Umorismo, ed invece il pregio della pièce sta nell’analizzare in maniera decisa e concreta una specifica condizione di un singolo personaggio che si rifrange sugli altri, arrischiandosi anche in una certa complessità di concetti.
La disabilità non è per niente un tema prescelto, è invece, proprio perché solo ed esclusivamente fisica, simbolo di stridente dicotomia, condizione estraniante che nasce dalla distanza dall’autocostruzione e dall’obiettiva visione al di fuori di se stessi. Non è un caso che in casa di Pietro non ci siano specchi, spiegato dallo stesso come una dimenticanza della madre (che rimanda, ovviamente, alla sua di rimozione), perché essi comporterebbero una riflessione, intesa nella doppia accezione come attitudine critica e propria immagine speculare, scomposizione di questa attraverso la quale fare esperienza della propria dicotomica lacerazione. È quel processo estetico e psicologico così teoretico nella lezione dello scrittore siciliano, che qui si incarna nella dispercezione che è spesso consequenziale a questo tipo di disabilità. È interessante, difatti, come Lisma abbia intuito qualcosa che rende molto vero il personaggio, e cioè che egli sfidi inconsciamente la sua disabilità cercando di annullarla attraverso intelligenza, intraprendenza, ambizione e personalità senza prendere consapevolezza della propria fisicità ed interiorizzarla. Semplicemente dirà alla fine “Pensavo che non era così evidente”. Interessante e sincero, dal punto di vista cognitivo, è l’attimo in cui il regista apre un breve squarcio sulla percezione interiore di Pietro che si raffigura nei suoi pensieri privo di alcuna paresi spastica.
La disabilità fisica è, dunque, lo specchio che manca al personaggio, e surroga senza ombra di dubbio quello degli altri, ma è soprattutto quell’immediato paradosso esistenziale fra i più lampanti per la sua forte evidenza, funzionale a quella riflessione (nel duplice significato) estetica e psicologica che avviene attraverso il teatro. Il teatro agìto non può nascondere peculiarità come la disabilità fisica, anzi se possibile l’amplifica, l’acuisce, la ingloba, la deforma ancora di più nell’agrodolce piglio ironico, talvolta cinico, in questo caso sia attraverso la preponderante presenza di quel corpo sullo spazio scenico, che mediante i molteplici sguardi del pubblico. La regia induce lo spettatore ad approcciarne senza compatimento o gratuita ammirazione e a ridere deliberatamente, sino a virarne lo sguardo da percezione comica a quella umoristica. Non a caso quando Pietro si ostina a trasportare i peperoni che per ore e ore sono stati preparati da Maria, per poi farli cadere, il gioco teatrale col suo ritmo da commedia brillante, la scrittura tagliente e la musica che surroga alcune sequenze da tempi cinematografici subisce una palpabile cesura. La scena scivola in un dibattito fra Giovanni e lo stesso Pietro sul bene e sul male e sulla relativa responsabilità di Dio, costellato di citazioni dalla letteratura e teologia cristiana dove non mancano dei passaggi troppo forzati, l’iniziale comicità si smorza in maniera progressiva. Un po’ stucchevole e pleonastica, discorde con l’impostazione quasi da pellicola, appare la narrazione della missione in Africa che rende faticoso l’approdo alla seconda parte che raccoglie le conseguenze della cena. L’impianto scenico è il medesimo, ma subisce ora declinazioni introspettive attraverso un diverso gioco di luci ed evocazioni grottesche. Giovanni entro un’onirica dimensione ammette a se stesso del complesso d’inferiorità che da sempre avverte nei confronti della sorella, le parole delle Scritture sono insufficienti, le autodifese di Filippo e del suo senso di colpa cadono dinanzi al dato di fatto, la caparbietà di Maria ad essere perfetta missionaria sconfina in un orgoglio opprimente, i discorsi e parole forbiti, arguti e brillanti di Pietro non nascondono per nulla il suo handicap, anzi ci sbatte contro quando la stessa Maria, di cui si è innamorato, lo definisce troppo evidente ai fini di un’attrazione sessuale. Sopraggiunta finalmente la riflessione, la goffaggine della sua fisicità che ha reso brillante la prima parte, ora lo traghetta in un’impalpabile (in)conclusione tragica. La destinazione ultima del personaggio, a sua volta speculare agli altri ugualmente destrutturati nello svilimento delle loro difese, è palesemente orientata verso il grottesco ed il paradosso concretatasi nel consolatorio abbraccio di Giovanni, e nelle parole con le quali Maria dice di non poter rinunciare all’amicizia con un uomo così meraviglioso, inchiodando la realtà ad una buonista e filtrata visione. Resta il sospetto che pur un più lieto epilogo di questo amore avrebbe adombrato i personaggi degli stessi mascheramenti. Peperoni difficili non può suggerire alcuna netta conclusione, se non la sensazione che solo il teatro sia onestamente in grado di restituirci le nostre dicotomie da cui trarne individualmente le nostre impressioni.
PEPERONI DIFFICILI
la verità chiede di essere conosciuta
scritto e diretto da Rosario Lisma
con Anna Della Rosa, Ugo Giacomazzi, Rosario Lisma, Andrea Narsi
TEATRO FRANCO PARENTI in collaborazione con JACOVACCI e BUSACCA