ALBERTO CORBA | Ideata nel 2009 dai coniugi Michelle e Robert King “The Good Wife” è “la serie che inizia dove gli scandali finiscono” (A.Stanley, NY Times). Potrei racccontarla come una favola, iniziando da “c’era una volta un budget”.

È la storia di Alice, moglie del procuratore capo di Chicago e di come ha reinventato la sua vita dopo che il marito, Peter, viene incarcerato e messo alla gogna per uno scandalo di corruzione e prostitute.

La brava moglie è costretta a tornare alla professione di avvocato e grazie a Will, una vecchia fiamma dei tempi del college, ottiene una chance in un importante studio legale. Alice affronta così la nuova carriera, l’invadenza della stampa e l’inatteso feeling con Will, che ancora smuove braci calde sotto la cenere.

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I King vogliono una protagonista affascinante, ma non una bellezza mozzafiato, una bella donna che potrebbe essere la vicina di casa o la collega. Julianna Margulies è perfetta: non era assurdo nel ’94 immaginarla sposata al George Clooney di ER (e gli anni le hanno fatto solo bene), ma non la vedremo mai sulla prima pagina di GQ. Gli uomini sono intrigati e le donne ci si possono identificare.

Accanto ad Alice mettiamo l’orgoglio spezzato di un marito; due figli svegli ,ma ingenui; una suocera ostile ed invadente. Archetipi forti che riflettono angosce sopite della middle\upper class americana.

Per dare spessore al progetto, è richiesta la partecipazione di qualcuno che abbia già esperienza di TV, ma il cui nome sia associato più al cinema e alle grandi produzioni. Nel 2009 la definizione calzava a pennello sui fratelli Scott (Ridley e Tony) che diventano i produttori esecutivi.

Non resta che avventarsi sulle tastiere e scrivere, giusto? Non proprio… Perché gli Scott sono ormai seduti al tavolo e vogliono garanzia che il prodotto raggiunga il più ampio pubblico possibile: la formula scientifica del successo va ora applicata pedissequamente.

Per prima cosa è necessario stuzzicare la fantasia peccaminosa e repressa della provincia americana: nasce quindi una figura esotica e misteriosa, una procace investigatrice di orgini indiane, bisessuale e ambigua nei suoi abiti attillati in similpelle. Archie Punjabi è Kalinda Sharma.

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Ma il pubblico del prime time è sempre più sofisticato ed esigente! E allora ecco Alan Cumming, meraviglioso attore scozzese, che adoriamo nei panni di Eli Gold. Sarcastico, cinico, avido e sboccato: Gold è sinceramente disgustato di se ed totalmente onesto in ogni bugia che racconta.

Aggiunguamo poi un riferimento per la comunità LGBT (Owen, fratello di Alicia, interpretato da Dallas Roberts). E tratteggiamo Will (Josh Charles) in modo da attrarre i maschi alpha veri o presunti, e la sua socia Diane (Christine Baranski) per non perdere le non-più-giovani donne di potere che hanno sacrificato la famiglia alla carriera…

A questo punto i coniugi King, stremati, vogliono solo scrivere la LORO serie. Ma la formula non è ancora completa.

Si devono aggiungere delle figure di contorno, ben caratterizzate, che facciano da fil rouge tra le intricate vicende dei protagonisti. Come Louis Cunning, avvocato affetto da un disturbo neurologico (interpretato da Michael J. Fox, realmente malato di Parkinson) o l’acido e scorretto Glenn Childs, un piccolo gioiello di silenzi e sguardi che prende forma nel viso di cuoio di Titus Welliver.

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Al termine del brainstorming, immagino Michelle e Robert soffocati da tutti i muri eretti in nome della promessa di un audience sicuro, ma finalmente liberi di lavorare.

Ma cosa rimane da scrivere? Come coltivare liberamente un’idea e vedere dove ci porta, se il mondo che volevamo creare è stato artificiosamente riempito di figure funzionali ad un teorema e non alla trama.

Tanto vale copiare in carta carbone idee già provate e masticate in altri legal drama come “L.A. law” o “The Practice”. In fondo stiamo saccheggiando i loro personaggi: dovranno funzionare anche le loro storie.

https://www.youtube.com/watch?v=YIH7UANUYl8&t=31s