EMILIO NIGRO | Un Abramo distorto dal racconto ufficiale. Si fosse trattato di un fatto storico, si sarebbe parlato di ucronia. Ma è parola di Dio, la storia di Abramo è narrata nella Genesi, lo stesso Dio che intima all’uomo prove “d’amore”, anche crudeli.
Padre di famiglia è Abramo, uomo di comando. Per lo meno fra le sua mura. E con le greggi, le messi, gli uomini a suo servizio. Uomo di potere. Continuamente al centro dell’indagine, quindi dell’azione drammatica, nell’opera dei baresi del Kismet, il potere. Prendendo a pretesto un plot narrativo molto consultato e nido da cui trarre nutrimenti filosofici e terreni. Un’indagine di teatro, e la finzione di scena diventa aderenza al reale per mezzo di metamorfosi, per metafore. Rimandi per segni. E per scene. Consequenziali, le scene, ma non consecutive. Ben sei attori nello spazio, mai sul palco collettivamente (distacco da una concezione strutturale e corale stilistica del teatro nuovo), determinati dalle circostanze, preferiti i corpo a corpo insomma. Codici canonici con innesti estetici, scenografici e drammaturgici dall’aria svagatamente pop, strabordante, a volte, forse di consueto, in estetismi, dialettiche e sonorità determinanti prurigine.
L’Abramo di Ermanno Bencivenga riadattato da Teresa Ludovico, regista e attrice inoltre, si lascia intravedere (dell’intravedere tipico del teatro) da angolazioni diverse. Le prospettive delle tematiche – potere, fede, abdicazione, avidità, ingenuità, paura dell’altro, territorialità, e se ne potrebbero rintracciare altre, di sottospecie – si estendono in ognuno degli sguardi sulla scena: spazi aperti, accennati, suggeriti, per cui volteggiare e prenderne coscienza. I personaggi, ricamati nettamente e introiettati in un cenno universale, riconoscibili e d’immedesimazione. L’impianto scenografico è mastodontico, uno spazio limitato da persiane, a lasciare intravedere il fuori e limitare l’interno (che nelle scene rappresenta in realtà l’esterno, in senso aereo, giocando ad ingarbugliare le percezioni e l’apprendimento). Persiane in movimento, a seconda del servizio dovuto all’andare drammatico: un presente (circostanziato dai costumi e dalla prosa) relativo ad un passato remoto e di indubbia origine storica, assunto però a dogma; il disegno luci da maestri (Vincent Longuemare è un poeta, nel mestiere): comunicazioni silenti. Non solo funzionali, luci e scenografia, a predisporre ad ambiente ed intenzione, meglio dire a una lettura di scena, piuttosto determinanti sfumature di toni e risultanze. Attestanti la potenza del lavoro, almeno nelle intenzioni. E nelle dichiarazioni, pure. Perché per una ventina di minuti lo spettacolo è una macchina perfetta. Perfetta anche nelle imprecisioni, d’umana fattura, che rendono uno spettacolo vivido, non robotico, non da compito in classe. Prosaico d’amblé (nei dinanismi di dialogo) mimetizzato dalle trovate e irrobustito da prestazioni attoriali di spessore (tranne quando si scivola nel mostrare troppo i muscoli, come capita a Gabriele Paolocà, per esempio); induzione di aspettativa nello spettatore; significati e significanti espressi a manifattura d’arte.
Peccato che per l’ora, scarsa, restante, l’allestimento perde irrimediabilmente di smalto, riducendosi a confusi tentativi di precedere e forzare un finale, allo scopo, presumibilmente, di renderlo esplosivo. Sbandando nel condurre le risorse migliori di scena a monologhi inutili alla drammatizzazione, che avrebbe invece dovuto incalzare e modularsi seguendo il naturale evolversi delle intenzioni dichiarate. Facendo affiorare un senso di superficie avvertito di troppo (destinare alla figura e all’immagine per oggetto il riconoscimento di un valore, di un consenso). I personaggi non sono più credibili, soffrono di ciò che in letteratura si sarebbe inquadrato con “mutamenti improvvisi”, che sì, chiaramente effetto della trama, ma senza sorta di continuità. Da uno stato all’altro. Probabilmente voluto. Ma poco efficace. E le soluzioni continuamente tirate oltre il limite di resistenza, benché atte a rimpinguare un onirismo e un brillante iconografico che resta di facciata.
Peccato, perché sicuramente lo spettacolo affascinerà pubblici e uditori. Ma il rischio è che non faccia rumore, poi. Che rimanga inesorabilmente a farsi intravedere nel gioco meraviglioso di luci e persiane.
Abramo
di Ermanno Bencivenga
adattamento e regia Teresa Ludovico
con Augusto Masiello, Teresa Ludovico, Christian Di Domenico, Michele Altamura, Gabriele Paolocá, Domenico Inveri
spazio scenico e luci Vincent Longuemare
costumi Cristina Bari e Teresa Ludovico
Visto ai Cantieri Teatrali Korejia, Lecce il 14.01.17, rassegna STRADE MAESTRE