FEDERICA BASTONI | Era il 2011 quando Netflix annuncia l’avvio del suo primo progetto di produzione, il remake in salsa americana della miniserie televisiva britannica House of Cards. A sostenere la portata commerciale dell’impresa, un rilancio notevole sulla qualità artistica:  il riadattamento della sceneggiatura viene infatti affidato al giovane drammaturgo Beau Willimon che, dopo il diploma alla Juliard, aveva fatto parlare di sé per alcune fortunate produzioni teatrali a tema politico; la produzione esecutiva viene affidata allo stesso Willimon e all’attore protagonista, la star di prim’ordine, Kevin Spacey. Perché questo piccolo ripasso della cronistoria produttiva? Perchè per la prima volta una serie riesce ad attrarre attorno a sé le forze, i talenti, l’attenzione mediatica, e la riflessione stilistica precedentemente riservate ai prodotti da grande schermo. Già nella versione del 1990 della BBC, l’intuizione c’era: ripescare moduli narrativi shakespeariani per adattare al video gli intrighi di potere raccontati dall’ex capo dello staff del partito conservatore Michael Dobbs nel suo romanzo autobiografico. Ma tutt’altra storia è, 21 anni dopo, integrare la materia prima già percorsa da mamma BBC, con una riflessione rinnovata di tipo semiotico sulla manipolazione della verità attraverso l’immagine e l’informazione. Il tutto definito da un approccio stilistico più teatrale che cinematografico-televisivo e rivolto, consapevolmente ed esplicitamente al passato. Insomma, digerita la novità del mezzo, si cominciano ad approfondire le sue implicazioni. Ed ora passiamo alle presentazioni vere e proprie? Dall’inverno del nostro scontento, ecco avanzare a passi sicuri nella loro invisibile deformità morale, sotto il sole di Washington…

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I CONIUGI UNDERWOOD, ovvero “dal sottobosco della perversione”

Legati indissolubilmente dalla ferma e implacabile volontà di raggiungere le vette del potere, Claire e Frank Underwood, a partire dal sottile gioco etimologico del cognome, vestono i panni fisici e comportamentali delle coppie letterarie che chiamerò “normative”; neologismo questo, che dichiaro assolutamente di mia invenzione per definire un certo topos narrativo in cui la relazione amorosa fra due personaggi si sostituisce a qualunque altra morale, divenendo l’unica fonte del codice di comportamento nelle avverse vicende delle loro parabole. Frank e Claire agiscono come una sola persona anche nel disaccordo, finiscono per assomigliarsi nell’eloquio e nella mimica facciale tanto da parere l’uno la versione maschile dell’altra, sono in grado di riparare – o almeno così credono – agli strappi dei loro cuori, riaffermando la loro distanza dal resto del mondo, odiandolo alle volte, cercando di sottometterlo, distruggerlo o ignorarlo (vedi i diversi triangoli para-erotici attraverso i quali mietono vittime e rinforzano il loro legame: Zoe Barnes, Edward Meechum).

Così nel movimento dirompente della loro ascesa raccolgono le suggestioni shakespeariane di Antonio e Cleopatra (normativi a tal punto da descriversi così: “L’eternità’ era sui nostri occhi e sulle nostre labbra, la felicità nell’arco delle ciglia; e non v’era parte, anche misera, di noi che non fosse di natura celeste”), Lord e Lady Macbeth, ma anche quelle a mio avviso, del visconte di Valmont e della marchesa de Merteuil, nelle cui mani amanti, servitori, conoscenti diventano pedine del loro “legame pericoloso”. L’apporto dato dalle tragedie shakespeariane è quasi esplicito negli aparte – già presenti nella versione britannica – in cui Spacey, spogliato della maschera politically correct, abbassa leggermente la nota di intonazione della voce, raggela lo sguardo fisso in camera, e limita ancora più che nel resto del tempo, la mobilità, in una fissità diabolica che richiama immediatamente Riccardo III (qui, una raccolta di aparte simpaticamente definita “Lezioni di spietatezza da Frank Underwood”).

Ma il trono dei coniugi Underwood trema spesso a causa del potere sempre maggiore che alle volte li divide rendendoli deboli, esposti e vulnerabili. Così emerge l’immensa solitudine di Claire che, per un attimo ingiustamente breve, pensa di poter dare a se stessa una possibilità di amore sano e spensieratezza fuggendo col bel fotografo Adam Galloway; e parallelamente la solitudine di Frank che, di fronte all’abbandono della moglie, pare incredibilmente e paradossalmente inerme (almeno inizialmente). A tratti April e Frank Wheeler appaiono fra le righe di questi potenti, come se il “realismo sporco” di Yeats costituisse un riferimento ancor più vivido e sentito nell’immaginario statunitense, rispetto a Shakespeare, se non nel delineare certe atmosfere di inevitabile caduta verso il baratro, e forse pure Daisy e Tom Buchanan, così destinati ad uccidere ogni povero e piccolo Gatz che voglia spacciarsi per un infallibile Gatsby. Un legame prigione, un legame culla che tiene insieme due bassezze in un unico abbraccio. E allora concludo con una descrizione di Fitzgerald che pare proprio fare al caso nostro: “Erano gente indifferente, Tom e Daisy – sfracellavano cose e persone e poi si ritiravano nel loro denaro o nella loro ampia indifferenza o in ciò che comunque li teneva uniti, e lasciavano che altri mettessero a posto il pasticcio che avevano fatto”. Vi consiglio di affrettarvi se non lo avete già fatto… perché di qualche giorno fa l’annuncio: a maggio la quinta stagione di House of Cards sarà online e chissà, magari ne riparleremo!