ELENA SCOLARI | Vi ricordate quando a scuola nelle interrogazioni di geografia ci mettevano davanti a un’implacabile cartina muta? Per non rimanere altrettanto muti si studiavano capitali, fiumi, affluenti, catene montuose, anche gli anfratti mai battuti da piede umano. afrique09Chissà in quale regione del cervello è finito tutto quel sapere…
Se oggi mi toccasse un esame davanti alla mappa dell’Africa sarei in seria difficoltà. Direi in difficoltà nera.

Elvira Frosini e Daniele Timpano (con la consulenza della giornalista Igiaba Scego) in Acqua di Colonia  insistono sul fatto che non sappiamo niente dell’Africa, né noi né loro. Niente della guerra d’Abissinia o della disfatta di Adua. Citano negus e città di Etiopia, Somalia, Libia, Eritrea, nomi che a quasi tutti noi suonano tanto esotici quanto astratti: Hailé Selassié, Macallé, Massaua, Addis Abeba, Axum, formule magiche che hanno portato gloria e lustro alla patria dalla fine dell’800 fino alla caduta del fascismo, per una sessantina d’anni.
E cosa volete che siano 60 anni…? Niente di cui preoccuparsi né occuparsi, oggi.

I nostri invece ce ne parlano. La scena è spoglia, occupata solo dagli interpreti che si muovono in un amalgama equilibrato e sinuoso tra i due: Elvira Frosini è particolarmente disinvolta e convincente nel suo essere spiccia e disincantata, Daniele Timpano sfrutta la sua capacità mimica a beneficio di un tono canzonatorio pungente ma velato di ingenuità.
Lo spettacolo si costruisce come se si assistesse alle prove dello stesso: i due attori immaginano e discutono di come potrebbero mettere in scena uno spettacolo sul colonialismo e poi ce lo fanno vedere. O meglio ci chiedono di immaginare con loro: immaginare un negro, immaginare il deserto, la savana. Bello il pezzo recitato da Timpano sulla vegetazione lussureggiante e sulla ferina fauna in cui nomi di piante e di animali si susseguono in un elenco parossistico fino alla belva che farà a brandelli l’uomo bianco. Verticale no scritte01

Frosini/Timpano vogliono fare a brandelli espressioni e luoghi comuni dell’uomo bianco, niente affatto superati, i banali pregiudizi sui neri che ben conosciamo. E ci riescono bene più volte. Spassossimo il dialogo che mischia concetti di filosofi alle opinioni del barista sotto casa o di “mia cuggina”:

E – È che non sono intelligenti come noi, l’ha detto pure il barista sotto casa.
D – Sì, proprio non ce l’hanno nel dna, non ci arrivano.
E – I negri d’Africa non hanno ricevuto dalla natura nessun sentimento che si elevi al di sopra della stupidità.
D – Sempre il barista sotto casa?
E – No, Immanuel Kant. E poi sono ingovernabili, “Moriranno sempre di fame. Sempre. Sono destinati. Se qualcuno non li governa, non ce la faranno mai”.
D – Anche questo è Kant?
E – No, è mia cugina Veronica. “Si ostinano a non entrare nella storia”. “Zoologicamente e non storicamente sono uomini. Si cerca di addomesticarli e addestrarli, ci si sforza di svegliarli ad uomini, è ciò che si chiama l’incivilimento dei barbari e l’umanamento dei selvaggi.”
D – Ma tua cugina è filosofa?
E – No, questo l’ha detto Benedetto Croce.

Il gioco funziona anche per la presenza (significativamente muta) di una spettatrice di colore che – in scena – assiste allo spettacolo seduta su una seggiolina da asilo. Ci fa continuamente chiedere cosa penseranno gli extracomunitari di tutte le scempiaggini che ancora si dicono e dei terrificanti soprusi di cui anche gli italiani si sono macchiati non tanto tempo fa. Buona idea per indurre un pensiero laterale in diretta.

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Ai fini dell’incisività teatrale, la durata della prima parte, preparatoria a quello che nella drammaturgia sarà lo spettacolo vero e proprio, allunga l’Acqua di colonia (due ore totali) che è invece più profumata e mordace quando abbandona le premesse. Qui comincia un catalogo enciclopedico di parodie: dai soldatini in divisa kaki a Topolino in Abissinia, da Stanlio e Ollio a Bob Marley che sbertuccia Audrey Hepburn ambasciatrice dell’Unicef, da Mamy di Via col vento allo sketch di Agus e Tognazzi sull’angioleddo negro nel guadro, dall’Aida schiava etiope a Faccetta nera, dalla retorica del film La mia Africa a Tripoli bel suol d’amore, da Montanelli (D. Timpano) con la sua moglie abissina dodicenne fino a Pasolini che cerca di “civilizzare” Ninetto Davoli.
L’irrisione di Pasolini profeta (parodiato da E.Frosini) è bella, molto riuscita, ma meglio risalterebbe se la serie che la precede fosse meno estesa.

Supponiamo che Timpano e Frosini ci stiano dicendo che noi siamo in teatro per “lo spettacolo” (e per la risata, sebbene intelligente) e quindi buttano in pasto al pubblico ciò che il pubblico si aspetta, come fosse l’unico linguaggio in grado di comprendere. Un cortocircuito di senso che dovrebbe lasciarci attoniti per l’imbarazzo. Dovrebbe.
Il fatto è però che sbeffeggiare allo stesso modo il colonialismo con i suoi gravi danni e il fastidio per chi vende gli accendini mentre fai l’aperitivo in piazzetta al Pigneto o chi adotta un bambino nero “ma a distanza” rischia di appiattire la critica. Più che riflettere freddamente sulle deleterie conseguenze di un’ideologia dominatrice sostenuta da bislacche teorie di superiorità, lo spettatore ne ride. Il che va anche bene ma non se si tende a trascurare l’effetto di un sano disagio, che proviamo davvero solo quando Frosini e Timpano compaiono indossando le maschere antigas con le orecchie di Topolino. Le maschere antigas danno sempre un brutta sensazione.

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La scelta formale dell’ironia ininterrotta che tutto dileggia indebolisce il collegamento tra le malefatte passate – per le quali può essere difficile sentirsi sinceramente in colpa – e gli atteggiamenti che assumiamo oggi.

Fin qui la coppia è bravissima ad evitare la retorica, anzi a evocarne l’odore proprio perché non ci cascano mai, e di questo gli rendiamo convinto merito, ma cedono nel finale, accidenti!
Una dozzina di fari gialli abbacinano improvvisamente il pubblico, uno scimpanzé di peluche viene lanciato in scena, i due escono, lo lasciano solo e la scimmia/bambino parla attraverso la voce di Sandro Lombardi, chiosando lo spettacolo con una morale. Come quelle di una volta. Che sia anche questa una presa in giro delle morali? Non siamo più in grado di dirlo.
Certo è che Acqua di colonia contiene molto di buono, perché non lasciarne evaporare un po’?

 

Testo, regia, interpretazione Elvira Frosini e Daniele Timpano
Consulenza Igiaba Scego
Voce del bambino Unicef Sandro Lombardi
Aiuto regia e drammaturgia Francesca Blancato
Scene e costumi Alessandra Muschella e Daniela De Blasio
Disegno luci Omar Scala
Progetto Grafico Valentina Pastorino
Produzione Romaeuropa Festival, Teatro della Tosse, Accademia degli Artefatti
Con il sostegno di Armunia Festival Inequilibrio

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