ESTER FORMATO | “Mal’essere” è un complesso progetto  di Davide Iodice, vero e proprio laboratorio scenico e di riscrittura di cui ne possiamo supporre la caratura del processo, vedendolo sul palco del teatro San Ferdinando di Napoli nel suo allestimento finale.

Un’idea – quella di “Mal’essere” – che prende vita attraverso una curiosa e complicata  riscrittura in dialetto di quasi tutto l’Amleto, rispettandone sostanzialmente atti e scene e affidata ai rappers partenopei che da qualche anno hanno dato vita ad una importante cultura underground, quasi al pari delle metropoli europee e americane. Ma qui non si sta parlando solo di un Amleto in napoletano ed in chiave rap, tanto per dare una definizione accessibile e banale al lavoro di Iodice; si è dinanzi, invece, ad una vera ideazione che contiene differenti linguaggi e che cercano di far esplodere, attraverso la carnalità feroce e dolente del dialetto napoletano si, ma delle periferie, quale  lingua dei rappers, quel marciume riposto nelle viscere e nella coscienza di ciascuno dei personaggi che trova un proprio correlativo oggettivo sulla scena riempita di rifiuti, “munnezza”, una terra che brucia e che puzza, l’Elsinore-giardino diventata ormai “di natura e fetida e volgare”.

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Lo spettacolo di Iodice prende avvio proprio dall’inizio del primo atto; compare lo spettro del re agli occhi di Bernardo e Marcello che, insieme a Orazio, poi a Guildenstern costituiscono un vero e proprio coro. Sono essi che rimano a suon di beat in una lingua così viscerale che sembra poter toccare parola per parola, e con i loro vestiti hip-hop sono voce-testimone di un territorio contaminato e ferito a morte. Di converso, il giovane Amleto (molto bravo Luigi Credendino a far emergere attraverso voce e corpo, quella tacita rabbia che cela la coscienza del personaggio) è vestito a lutto, siede sul proscenio così diverso dai compagni,  voce isolata  sconta un avvilente esilio all’interno della propria casa in cui Claudio (Marco Palumbo) e la Regina (Angela Garofalo) si godono le loro nefaste nozze. I quadri si susseguono fra immagini vagamente kantoriane (Gertrude con il lungo velo, ferma a mo’ di marionetta) e di forte impatto visivo (il carro degli attori, le loro teste equine, i numeri del clown, i pupazzi), e parentesi comiche, come la scena originaria dei becchini che richiama in alcuni versi vagamente ‘A livella di Totò, mentre le luci variano di colore in una prospettiva chiaroscurale. “Simm ‘na famiglia ‘e cumbattent” così Claudio, quella “gente tosta” da clan camorristico di cui Amleto si trova a far parte e proprio nel quale deve attuare la sua vendetta. La riscrittura non dimentica la poesia, tende a procedere per rima e la recitazione è accompagnata da un suono di pianoforte, intervallata dai beat, o talvolta da fuochi d’artificio che mai mancano nelle periferie di Napoli. Una prigione estesa all’infinito, una cappa oppressa da un fondale bianco che si colora attraverso le cangianti luci.

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Il lavoro procede secondo due direzioni fra loro contrastanti,  relative al piano della scrittura e a quello visivo: se la prima tende sostanzialmente al rispetto dei quadri originari i cui testi sono concentrati nella riscrittura, a livello visivo e uditivo ci si distanzia completamente dal modello di riferimento, creando una sorta di disorientamento nello spettatore. L’impressione è che simultaneamente all’intreccio drammaturgico dell’Amleto, la scrittura scenica lo disarticoli. Come sganciato è il finale.

Il ritorno di Amleto nel IV atto è preceduto ora, non da una missiva, ma dal simbolo dell’anarchia apposto sul grande pannello che troneggia sulla scena, non segno politico, ma espressione metropolitana di ribellione. Torna dunque sulla bara di Ofelia che si è data alla follia e alla morte, ed è il sangue della stessa candida fanciulla a rivendicare tutto il sistema. Ofelia vive è l’ultimo beat dei rappers mentre un murales fa sfoggio della simbologia della cultura urbana underground: un cuore trafitto, segno di un amore perduto.

Il progetto di Davide Iodice risulta particolarmente impegnativo.  La riscrittura tira fuori senza dubbio la parola magmatica e corporea che ci fa cifra espressiva di periferie dolenti; il coro ha l’apparenza di elemento davvero spurio nel quadro dell’Amleto, se consideriamo che il Bardo non può contemplarlo per la visione totalmente rinascimentale votata al dramma mai collettivo, ma del singolo al cospetto del bene e del male. Tuttavia la crew rapper che ne riveste la funzione la snatura a pieno, rifuggendo da uno sguardo comunitario per identificarsi nella pluralità delle singole esperienze e conflitti. Portando all’interno dello spettacolo una tessitura ritmica, più a farsi voce di un popolo, ne esibisce una collaterale ma non meno dolente, e squisitamente generazionale. Sono loro che a suon di rime sono in grado di oggettivare questo mal’essere, da intendersi come condizione esistenziale e come  consapevolezza di non saper prescindere dalla scelta del male dalla quale tutti i personaggi sono segnati.

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Il candore ed innocenza di Ofelia, unico lembo pulito in una terra inquinata, è dove Amleto inconsapevolmente – e forse no – riversa la sua vendetta.  Ofelia (Veronica D’Elia)  è quindi comprimaria e sguardo complementare del principe, forza purificatrice che restituisce alla trama la principale significazione,  luce che imperversa con la sua onestà sull’immondizia che inonda la scena. Iodice la rende capro espiatorio  che con la follia si rende emarginato all’interno della sua stessa comunità, quindi rifiuto urbano umano,  personaggio-emblema con il cui sacrificio è destinato a calare il sipario su questo squarcio di terra di nessuno. Una fine visivamente suggestiva ma che concettualmente rischia di allinearsi ad un immaginario e ad una dicotomia bene e male forse già molto abusati.

Pur essendo interessante il contrasto fra piano testuale d’intreccio e quello visivo della scrittura scenica, probabilmente la riscrittura dei rappers avrebbe dovuto agire maggiormente sulla compagine drammaturgica, tirare più le fila insomma, per bilanciare quella disarticolazione che essi stessi determinano attraverso la loro funzione di coro, imprimendo ulteriori incursioni innovative nella riorganizzazione del testo.  D’altra parte, da un punto di vista esclusivamente scenico e visivo Davide Iodice tende assolutamente a sgomberare l’assito da ogni riferimento filologico.  L’Amleto scespiriano diventa pura astrazione, ha luogo un’altra storia attraverso le parole scavate da Shakespeare, quella di terre in cui il sangue innocente resta vivo e non può mescolarsi a quello macchiato. Amleto non compie nessuna vendetta, il duello con Laerte resta solo citazione. Resta l’emersione di un disagio, la sua illustrazione visiva e sonora di pezzi di periferia da cui in lontananza si sentono i rumori.

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ideazione, drammaturgia e regia Davide Iodice
riscrittura in napoletano di Gianni ‘O Yank De Lisa, Pasquale Sir Fernandez, Alessandro Joel Caricchia, Paolo Sha One Romano, Ciro Op Rot Perrotta, Damiano Capatosta Rossi
con Luigi Credendino, Veronica D’Elia, Angela Garofalo, Marco Palumbo, Paolo Romano, Francesco Damiano Laezza, Salvatore Caruso, Damiano Rossi, Peppe Sica, Vincenzo Musto, Gianni De Lisa, Antonio Spezia
spazio scenico, maschere e pupazzi Tiziano Fario
costumi Daniela Salernitano
disegno luci Angelo Grieco, Davide Iodice
musiche composte ed eseguite dal vivo da Massimo Gargiulo
aiuto regia Michele Vitolini
foto di scena Pino Miraglia
produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale