RENZO FRANCABANDERA | Il gioco è questo:  nove drammaturghi contemporanei a raccontare episodi della storia dell’Afghanistan nel suo rapporto con l’occidente, dal colonialismo britannico di metà Ottocento ai nostri giorni, gli attentati, le guerre più o meno preventive. In due secoli circa l’occidente ha sempre cercato di importare in questo paese aspro e peculiarissimo nelle dinamiche geopolitiche dell’Asia, una sorta di democrazia ibrida che in alcuni momenti, qui come in altre realtà dell’universo islamico, come ad esempio la Turchia, aveva anche attecchito in una forma tutta particolare.

Ma la recrudescenza del confronto culturale, delle grandi migrazioni dovute ai cambiamenti climatici e alla redistribuzione planetaria delle ricchezze dopo la fine degli equilibri nati sulle ceneri della seconda guerra mondiale, del mondo a blocchi contrapposti, ha spazzato via ogni tentativo di dialogo formale e sostanziale, riportando la nazione a forme e strutture sociali dove gli equilibri tribali, mai veramente superati, hanno reintrodotto il rigore nell’applicazione dell’ortodossia religiosa più estrema, con un ritorno a costumi sociali e segregazione della componente femminile della società che sembravano alle spalle dopo gli anni Sessanta e Settanta, in cui la nazione aveva tentato uno slancio verso l’oltre.

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L’Afghanistan è a conti fatti un laboratorio di come le influenze delle dominazioni più svariate siano state per questo territorio un elemento di destabilizzazione, che ha permesso la radicalizzazione del conflitto sociale e delle forze conservatrici al suo interno. Proprio per analizzare a fondo il ruolo della dialettica con l’Occidente e le dinamiche dentro il suo stesso corpo civico, il Tricycle Theater di Londra, teatro dalla spiccata vocazione di analisi artistica e geopolitica internazionale diretto dalla attivissima e affascinante Indhu Rubasingham, diede vita al progetto The Great game, spettacolo ‘day-long’ nel quale tredici tra i migliori autori inglesi raccontano i rapporti tra l’Afghanistan e l’occidente dal 1842 ai giorni nostri. A produrlo la stessa Rubasingham e Nicolas Kent, allora direttore del teatro, che ha ceduto poi il suo posto alla artista inglese di famiglia cingalese.

https://www.youtube.com/watch?v=EkRB-X7to6k

Nel 2009 a Londra come all’Elfo nelle due settimane passate (ora in Emilia, a Modena, fino al 19 febbraio al Teatro delle Passioni; ERT co-produce con l’Elfo) il successo di pubblico è stato clamoroso, con la sala sempre stracolma. La replica cui ho assistito è iniziata 15 minuti dopo, per permettere a tutti coloro che erano il lista d’attesa di trovare posto a sedere.
I primi cinque dei nove episodi portano la firma di Lee Blessing, David Greig, Ron Hutchinson, Stephen Jeffreys, Joy Wilkinson: parliamo di un gruppo di drammaturghi molto vario, sia anagraficamente che per esperienze, con personalità di punta della drammaturgia anglo-americana, impegnate nella scrittura su quasi tutti i canali mediali. I testi di Stephen Jeffreys, Ron Hutchinson e Joy Wilkinson riguardano il periodo 1842 – 1930 e quelli di David Greig e Lee Blessing appartengono già al periodo 1979-1996, dall’invasione dell’Armata Rossa all’ascesa dei Talebani.

La regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani decide di sviluppare i piani narrativi delle 5 opere come un grande documentario storico, preceduto da video introduttivi di stile quasi documentaristico, che favoriscano al pubblico una maggior comprensione delle drammaturgie, di fatto unendo il concetto delle 9 pièce teatrali del 2009 con la più documentaristica e pur di successo omonima serie televisiva di Rory Stewart del 2012, prodotta dalla BBC. In un interessante progetto di teatro multimediale, la narrazione teatrale di impianto abbastanza tradizionale e di carattere storico, si alterna a docuvideo ben realizzati e sufficientemente esplicativi del contesto socio-politico in cui saremmo stati poi portati dagli spettacoli brevi.

Le scene e i costumi di Carlo Sala propongono un approccio di approccio salgariano, dove realismo e fantasia coloniale si mescolano in un quadro che permette allo spettatore di localizzare precisamente gli eventi in una fantasia i cui confini vengono segnati nello stesso momento della messa in scena.

hossein-taheri-massimo-somaglino-afghanistan.jpgInterpreti del lavoro sono, nei vari episodi e con vari ruoli Claudia Coli, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Leonardo Lidi, Michele Radice, Emilia Scarpati Fanetti, Massimo Somaglino, Hossein Taheri, una squadra che si dimostra all’altezza della prova attorale, sia nella durata che nell’intensità. Sicuramente Somaglino e Curcurù, anche per portata dei ruoli affidati, finiscono per dare un’impronta personale più netta al tutto, con la loro diversità stilistica, oltre che anagrafica, che la regia sfrutta bene, come bella e potente è l’apparizione scenica del tratto somatico di Hossein Taheri nel secondo episodio, capace di portare il pubblico davvero nel luogo narrato.

L’intenzione di coinvolgimento resta il motivo principale a cui tutta l’operazione si ispira, come ribadito nelle note di regia: “Se c’è una cosa che ci colpisce nel teatro angloamericano è la sua ostinata capacità di coinvolgere emotivamente e fin ludicamente lo spettatore, senza perdere nulla in fatto di qualità della scrittura”

Nel complesso questo intento è la caratteristica più marcata del Grande Gioco, con una segnalazione per le drammaturgie di Hutchinson, Blessing e Greig. Le altre due, pur necessarie nell’ambientare e legare, non arrivano alla stessa potenza evocativa delle tre che a nostro avviso suscitano maggior interesse, mentre nelle altre due il ritmo è fievole. Per qualche conoscitore del tempo presente le tre ore di spettacolo, complice una  scrittura che a volte si fa didascalica e meno imprevedibile, includono anche momenti di stanca; ma alla fine sempre ci stupiamo di come si conosca pochissimo il mondo in cui viviamo, la sua complessità e i suoi perché. Sotto questo aspetto l’operazione di Bruni/De Capitani è sicuramente di successo, un format con delle peculiarità che, su altri campi e temi, potrebbe veder coinvolte le penne nostrane: lo Stato e l’eversione, o la stagione del terrorismo. Chissà. Ma davvero lo schema proposto è fecondo e apre sviluppi interessantissimi.

 

Afghanistan Il Grande Gioco‎

Invasione e indipendenza 1842-1930

  • TROMBE ALLE PORTE DI JALALABAD di Stephen Jeffreys

con Claudia Coli (Lady Florenthia Sale, moglie di un generale inglese), Massimo Somaglino (McCann), Leonardo Lidi (Dickenson), Michele Radice (Hendrick), Michele Costabile (Winterflood), Enzo Curcurù (Afzal)

  • LA LINEA DI DURAND di Ron Hutchinson

Massimo Somaglino (Sir Henry Mortimer Durand, segretario degli esteri dell’India Britannica 1885-1894), Hossein Taheri (Abdur Rahman, emiro dell’Afghanistan 1880-1901), Michele Radice (Thoma Salter Pyne, ingegnere al servizio dell’emiro)

  • QUESTO E IL MOMENTO di Joy Wilkinson

con Enzo Curcurù (Amanullah Khan, re dell’Afghanistan 1919-1929), Hossein Taheri (Mahmud Tarzi, amico di Amanullah), Emilia Scarpati Fanetti (Soraya Tarzi, sua figlia e moglie di Amanullah), Michele Radice (L’autista)

Il comunismo, i Mujāhidīn e i Talebani 1979-1996

  • LEGNA PER IL FUOCO di Lee Blessing

con Massimo Somaglino (Owens, direttore della CIA di Islamabad), Leonardo Lidi (Generale Akhtar, direttore dell’Inter-services Intelligence del Pakistan), Claudia Coli (Karen, Vice di Owens), Michele Costabile (Abdul, comandante afgano)

  • MINIGONNE DI KABUL di David Greig

Claudia Coli (scrittrice), Enzo Curcurù (Najibullah, presidente dell’Afghanistan dal 1987 al 1992)