MARIELLA DEMICHELE| È da poco andata in scena all’India di Roma l’ultima replica di Strategie fatali, lavoro scritto, diretto e interpretato da Lino Musella e Paolo Mazzarelli. Un successo di pubblico e di critica che ha parlato di questo spettacolo come di uno dei “capolavori” del nostro teatro. Due ore e venti a confronto con  tre storie e sette attori che danno  corpo e voce a ben sedici personaggi e ad un testo che apre varchi nel cuore e nella mente.

Abbiamo approfittato di una pausa nel ritmo serrato delle prove per una chiacchierata con Paolo Mazzarelli.

Il titolo di questo ultimo spettacolo è un esplicito riferimento ad una delle opere più famose e controverse del filosofo francese Jean Baudrillard. Quali elementi della sua riflessione hanno innescato il vostro lavoro drammaturgico?

Abbiamo letto “Strategie fatali” con molta attenzione. L’impressione è che, oltre a decretare la fine di una filosofia della soggettività, quest’opera  descriva un universo dominato dalla sorpresa e dall’ambiguità, nel quale è impossibile qualsiasi ricerca di senso. Tuttavia, pur essendo laureato in filosofia, guardo con una certa diffidenza agli intellettualismi. Non volevamo portare in scena un trattato di filosofia: Baudrillard ci ha dato stimoli e suggestioni  che abbiamo cercato di rielaborare in un lavoro drammaturgico di più ampio respiro, per riflettere senza moralismi sulla complessità e sulle fragilità del mondo in cui viviamo.

Come è nata l’idea del testo? Come avete lavorato?

Lino Musella aveva in mente la storia del video porno. Inizialmente, però, si era pensato di ambientarla all’interno di un salotto borghese. Nel frattempo abbiamo letto Baudrillard e, ad un certo punto, è arrivata l’idea di Otello che è poi diventata la storia centrale intorno alla quale si muovono le altre due. Dopo aver inventato i personaggi dei due investigatori nel corto “Indagine su uno spettro al di sopra di ogni sospetto”, commissionato dal Franco Parenti di Milano, abbiamo deciso di inserirli anche nel nuovo lavoro: sono loro che, con il pretesto di indagare sulla scomparsa di un adolescente, introducono gli spettatori nel vecchio teatro, la scena sulla quale si intrecciano le altre storie. A differenza di nostri altri lavori che sono nati di getto, questo ha avuto bisogno di tempo. Ci abbiamo pensato molto e abbiamo fatto una scelta di complessità. Può succedere che, in questo continuo entrare ed uscire dalle storie, lo spettatore si senta perso: è un rischio che abbiamo accettato di correre, come quello di non essere compresi. D’altra parte, non vogliamo e non sappiamo essere chiari e didascalici. Non è questo il compito del teatro. Avremmo anche potuto decidere di lasciare solo la parte dell’Otello: dura solo un’ora e venti, abbiamo a disposizione attori straordinari, la storia funziona benissimo, ma fin dall’inizio era chiara la nostra intenzione di rifiutare qualsiasi semplificazione. Adesso, dopo qualche replica, abbiamo l’impressione che questa architettura, nata per stratificazioni successive, per stare in piedi ha bisogno di tutti i suoi pezzi.

Quali sono state le difficoltà principali che avete trovato nel passaggio dal testo alla messa in scena?

Posso dire che è stato uno sforzo che non avevamo mai affrontato in precedenza. Un parto, con tutta la fatica e la meraviglia che questo evento comporta. Siamo grati a Marche Teatro che continua a produrci e a sostenerci,  ma più volte abbiamo avuto la sensazione di affrontare una sfida più grande delle nostre forze.

Adesso possiamo dire che è stata una grande avventura attraversata da crisi umane, momenti di scetticismo e di grande euforia, da tutta l’ampia casistica di eventi che accadono durante l’allestimento di uno spettacolo. La sfida più grande è stata quella di intervenire con precise scelte registiche nell’organizzazione di un materiale così ampio. Abbiamo dovuto fare molti tagli, eliminare ridondanze e, soprattutto, capire quali strategie di regia usare per valorizzare, all’interno di una struttura unitaria, le caratteristiche delle singole storie. La parte delle prove dell’Otello funzionava già al momento della prima lettura. Il problema è stato trovare la giusta atmosfera per la storia dell’elettricista chiuso in teatro: quel tipo di scrittura, infatti, richiedeva la scelta di altri stilemi. Un’accurata ricerca estetica ci ha portato a lavorare in modo minuzioso sulle luci e sulla musica. Devo ricordare, a questo proposito, il contributo fondamentale dato da Luca  Canciello con il sound design e con le musiche originali.

Nello spettacolo viene chiesto agli attori di usare intensamente i loro corpi, non solo per la caratterizzazione dei personaggi. Scorre in scena un’energia continua che nasce da una consapevolezza corporea non comune nelle produzioni italiane. Come lavorate con gli attori per raggiungere questo risultato?

Non credo che esista un lavoro sulla parola separato da quello sul corpo. Cervello, cuore, corpo, ascolto, tecnica: sono tutti strumenti necessari per un attore. La responsabilità nel raggiungimento dei risultati è un fatto personale: se qualcuno ha bisogno di tre ore di training per ottenere la concentrazione prima delle prove, è libero di farlo. Noi non imponiamo un modo di lavorare e, probabilmente, non saremmo neanche in grado di guidare un training fisico. Abbiamo la fortuna di lavorare con degli attori – Marco Foschi, Annibale Pavone, Laura Graziosi, Astrid Casali, Giulia Salvarani – che sanno usare il corpo in scena, che amano farlo e che hanno generosamente messo a disposizione questa loro capacità senza bisogno di forzature.

Come descriverebbe il percorso fatto nel campo delle vostra ricerca drammaturgica?

Nei nostri primi lavori, Due cani, seguito poi da Figlidiunbruttodio e Crack Machine, siamo partiti dal canovaccio. Inizialmente non avevamo alcuna ambizione di scrivere. Eravamo e siamo, fondamentalmente, due attori. Questo significa che partiamo sempre dall’azione, dal palcoscenico, dagli eventi; quando pensiamo a delle scene, ci chiediamo cosa succede e solo dopo troviamo un modo di scrivere. Tutto è partito da una scrittura scenica che, negli ultimi due spettacoli, si è progressivamente trasformata in scrittura pura.

Quale la sua opinione sul panorama drammaturgico italiano? Quali i nomi che ritiene più significativi?

I nomi che potrei fare sono tanti. Oltre a Emma Dante – che ha finalmente ottenuto il pieno riconoscimento che merita – ci sono altri autori e altri tipi di scrittura che ritengo interessanti. Penso ai lavori di Lucia Calamaro, di Scimone-Sframeli, Oscar De Summa, Fausto Paravidino, Letizia Russo, ma credo che in Italia ci siano molti più talenti di quelli ufficialmente riconosciuti. In Francia e in Inghilterra, realtà che conosco molto bene, il sistema sostiene gli artisti in modo incomparabilmente migliore del nostro; non si tratta solo di questioni economiche – che pure hanno un ruolo importante – ma della possibilità concreta che viene data agli autori, alle compagnie, di rendersi visibili, di farsi conoscere, di non essere rinchiusi nella nicchia della drammaturgia contemporanea o del cosiddetto teatro di ricerca. Da anni cerchiamo di convincere i teatri a proporre i nostri lavori al pubblico degli abbonati e quando ce lo lasciano fare i fatti dimostrano che abbiamo ragione. Non esistono spettacoli “di ricerca”, esistono solo spettacoli belli e spettacoli brutti. Ci sono lavori che si definiscono “di ricerca” che per me sono aberranti e rivisitazioni di classici semplicemente meravigliose. E viceversa, ovviamente.

Uno spettacolo che ha visto recentemente che l’ha colpita o che le sarebbe piaciuto fare?

Per sfuggire a due tentazioni comuni a chi fa questo lavoro – il narcisismo e l’autoreferenzialità – penso sia molto importante vedere quello che fanno i colleghi. Ragazzi di vita all’Argentina mi è sembrato un bel lavoro, gli attori in scena avevano una bella energia ma, tra gli spettacoli visti di recente, non ho trovato qualcosa di particolarmente significativo. Potrei ricordare Lehman Trilogy, non perché mi sarebbe piaciuto farlo – facciamo altro – ma perché di fronte ad una costruzione così potente, a livello drammaturgico e registico, e ad attori di quel livello, si capisce cosa sia il Teatro.

A questo proposito: quale il ruolo del teatro nell’universo di iperrealtà descritto da Baudrillard?

Credo che sia quello di usare questo piccolissimo spazio che ci è concesso per donare un altro punto di vista, un sentimento nuovo allo spettatore. Non sempre ci riusciamo. Anzi, se ci guardiamo intorno, tutto sembrerebbe giustificare l’ipotesi di un’umanità destinata ad andare in malora nel giro di qualche secolo. È difficile, con queste premesse, trovare un senso al nostro lavoro. Perché fare teatro? A cosa serve? La mia risposta è che, proprio a causa di queste premesse, posso rischiare tutto, senza freni. Inseguire miraggi di comodità di qualsiasi tipo non porta a nulla: non c’è più niente da perdere. Il Teatro diventa allora l’ultimo possibile luogo di indagine metafisica.

È cambiato lo spettatore nel corso degli anni?

Questo non sono in grado di dirlo. In un certo senso, però, a Roma manca lo spettatore. Qui, infatti, una grossa fetta del pubblico è formata dagli addetti ai lavori. Una caratteristica che può essere stimolante, ma si va in scena sapendo di non avere davanti un muro di pubblico come succede a Milano, a Napoli, a Firenze, città in cui ci sono borghesie che vanno abitualmente a teatro.  A Roma, la borghesia che va a teatro frequenta l’Argentina, l’Eliseo, il Ghione, l’Ambra-Jovinelli, ma non va all’India, luogo attorno al quale gravitano quasi esclusivamente gli addetti ai lavori. Noi che stiamo andando in scena all’India sentiamo un po’ la mancanza di questo tipo di pubblico, più eterogeneo: abbiamo questa consapevolezza e cerchiamo di non farci condizionare.

Quanto conta, nel vostro lavoro, il rapporto con i critici?

Anche loro, come noi artisti, sono in un momento di profonda crisi. Siamo tutti in una sorta di interregno in cui non si sa se esisti, per chi esisti. Lo scambio è importante, ci spinge a interrogarci, a farci domande,  ma siamo convinti che nella relazione sia giusto mantenere una sana distanza; un atteggiamento pudico, di grande rispetto, che abbiamo sempre avuto e che continuiamo ad avere.

Nell’universo descritto da Baudrillard, in cui certezza e verità sono impossibili e nel quale “l’illusione è la regola fondamentale”, non c’è davvero più modo di distinguere tra Bene e Male?

Non penso affatto che sia impossibile distinguere tra Bene e Male, ma che la distinzione che ci viene propinata abitualmente sia falsa. La realtà è molto più complessa, si muove lungo un confine di sottile ambiguità. Esistono culture, religioni che ti dicono che scopo della vita è il nirvana e altre che ti spingono a distruggere il nemico. A seconda delle persone, della cultura, del livello di profondità del discorso, questa linea di distinzione è destinata a muoversi, configura nuovi scenari rispetto ai quali non possiamo rimanere indifferenti.

“Più visibile del visibile, tale è l’osceno”, scrive Baudrillard nelle Strategie fatali. Cosa è, per lei, l’osceno?

L’incapacità di contattare le parti più profonde di noi stessi.

State lavorando a nuovi progetti?

Si. Abbiamo in cantiere una riscrittura di Shakespeare ma, per il momento, vorremmo veder vivere questo spettacolo ancora a lungo. Siamo convinti che meriti di essere visto e apprezzato da un pubblico più vasto. L’anno prossimo saremo a Milano, all’Elfo, e stiamo cercando di portarlo anche in altre città. Il calore e l’incanto con cui è stato accolto a Roma sono un segno che Strategie finali non finisce qui. Non finisce qui questa felicità.

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