-1.jpgEMILIO NIGRO | Il mondo è dei forti. Il mondo non è per i deboli. A dirlo è un recluso nel manicomio d’Aversa. Recluso volontariamente, per nascondersi. Nascondersi da cosa non ci si adatta. E non per scelta. Per incapacità.Nel manicomio d’Aversa è ambientata la riproposizione scenica del celeberrimo film in cui Jack Nicholson provava a sovvertire l’angusto ordine dell’istituto di detenzione. Ordine immanente, precostituito, quasi astratto. Come del resto il potere appare, o meglio tende a manifestarsi: una entità percepita in modo astratto, distante, che influenza ogni cosa ma non si vede. Qualcosa che somigli al divino.

Nella metafora del potere, delle regole e dei tentativi di sovvertirle, nel mutare le condizioni d’ostracismo in oneste e consensuali meccaniche sociali, sta il giro di giostra dello spettacolo, con popolari e “scartati” protagonisti contro il moloch di turno incarnato da una suora laica. E una statua della madonna di fattezze giganti presente appena al lato del centro scena, a volere segnare il confine tra simbolo e didascalia. Una madonna in un patibolo d’un grande ospedale psichiatrico. Ricostruito realisticamente, dal punto di vista scenografico, e capace di incutere angoscia. Due livelli di superficie praticabile: in alto, il posto dei reclusi cronici e lo stanzino dell’elettroshock. In basso, lo spazio d’azione, suddiviso in più stanze e accessi (di scena) variegati.

La metafora dell’obbedienza a tutti i costi. Della coercizione violenta e farmacologica per soggetti “con qualcosa da scontare per cui non si è pagato”. Malati di mente. Oppure deboli. Disadattati. Perché è doveroso adattarsi. A qualunque situazione. L’umano lo fa. Fisicamente, anche, per adattamento cerebrale, tramite le cellule staminali, all’ambiente circostante. Chi non si adatta è malato. Acuto o cronico.

Nell’azione scenica, invece, di metafora ce n’è poca. A favore del mostrato senza troppo doverci ragionare, del dialogico diretto, l’interfacciarsi attoriale dialettico e mai espressivo per altri mezzi, la consecutio di scene, il plot narrativo non ingarbugliato, insomma, uno spettacolo intellegibile e netto. Per famiglia, si direbbe. Con il bollino verde in basso a destra. Nulla da eccepire.

Un velatino in boccascena suggerisce significati altri. Lo spettatore è sempre terzo, dietro la parete da cui sbircia, guarda, osserva, scruta, giudica anche e prende posizione. Dal palco nessun contatto diretto. Accade lì, e dall’altra parte si entra in contatto rimanendo sul posto. Senza troppo avvicinarsi o unirsi. Si avverte. Perché l’impatto emozionale dello spettacolo non si discute. Sembra studiato a tavolino. Un approdo diretto, formale, senza utilizzo di linguaggio d’arte o codici di nuova generazione. Pulito, meccanico, preciso. Un compito. Popular.

Scivolando qua e là in retoriche e nazional popolare. A passo coi tempi, si potrebbe dire. Capace anche di picchi altissimi quando il teatro si vede e se ne gustano le dinamiche pure. Quando i giochi della commedia, la commedia teatrale, guizzano tra gli attori e creano vibrazione. Per il resto, ordinarietà. Imbevuta di cinema. Come al cinema, pare ci debba essere bisogno sempre di un fondale con un’ambientazione precisa (quando il teatro gioca e vince d’immaginazione); come al cinema restituire l’enfasi da drammone con risvolti sociali; come al cinema edulcorare le fattezze e non le sostanze, gli interni umani, la psiche, l’anima. E l’utilizzo del video a volere sterzare livello drammatico e apportare percettibilità diverse (quando dovrebbero estendere drammaturgie o oggettivare composizioni o ancora rappresentare…).

Tutto sommato gli attori fanno il loro e qualcuno riesce anche ad uscire dalla parte per fare vedere la pelle, la pelle vera (Elisabetta Valgoi e Mauro Marino, per esempio), e lo spettacolo piace molto. Nulla da eccepire. Tutto sta al punto giusto. Anche i colpi di scena. Il sentimentalismo. Le citazioni (su tutte il gigante buono del miglio verde e l’ambiente che ricorda bad boys con un giovanissimo e irrequieto Sean Penn).
Filmico.

Qualcuno volò sul nido del cuculo

di Dale Wasserman

dall’omonimo romanzo di Ken Kesey

traduzione Giovanni Lombardo Radice

adattamento Maurizio de Giovanni

con

Daniele Russo, Elisabetta Valgoi

e con Mauro Marino, Giacomo Rosselli, Alfredo Angelici, Emanuele Maria Basso, Davide Dolores, Daniele Marino, Gilberto Gliozzi, Antimo Casertano, Gabriele Granito, Giulia Merelli

uno spettacolo di Alessandro Gassmann

produzione Fondazione Teatro di Napoli

 

visto al Teatro Sociale – Brescia, il 19.02.2017