FEDERICA BASTONI | Purificarsi è: elaborare, trasformare, comprendere? O glorificare, tendere, contemplare? Come in ogni puntata di IDENTIKIT SERIALI, l’indagine sul nostro personaggio parte dall’interrogativo profondo che nasconde, il segno distintivo che lo rende un topos narrativo trasversale.
Per fare qualche esempio: nell’antica Grecia purificarsi è “rimettere al Fato ogni avvenimento e accettarlo senza arroganza poiché il caso domina la vita”, nel cattolicesimo europeo cosmologico e carnale, purificarsi è “abbandonare le passioni terrene e tendere a Dio”, nel buddismo zen è “recuperare la proprio natura originaria, sostanzialmente divina, abbandonando i condizionamenti dati dall’esperienza”.
Ognuna di queste forme del pensiero ha prodotto diverse tecniche di purificazione; catarsi tragica, profezia biblica e kōan misterici si incontrano tutti nella forma del rito, figurativo, riconoscibile e riproducibile. Così la rappresentazione teatrale di una tragedia, la messa cattolica, il Kalachakra buddhista, e la narrazione seriale distopica non sono poi così distanti come pensate proprio in virtù dell’urgenza di rinascita, purificazione appunto.
La serie di cui parliamo oggi, in cui questi immaginari si confondono rigenerandosi, è “3%”, l’ennesimo colpo azzeccato da Netflix, nonché la prima produzione brasiliana dell’ormai colosso internazionale. Acuto reboot di una web serie del 2011, “3%” è un racconto distopico che prosegue nell’ampio percorso tracciato da Metropolis, Blade Runner e Brazil (e non cito Hunger Games per un motivo ben preciso), tracciando l’immagine di un futuro meccanizzato, polarizzato in estremo fra piatti concetti di bene e male e, tradizionalmente, ingiusto. E’ con piacere quindi che vi presento un Leviatano vestito da gentleman, colui che decide chi sia idoneo alla salvezza e chi non meriti altro che la condanna: Ezequiel, l’indiscusso capo del Processo.

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João Miguel nei panni di Ezequiel mentre, nella prima puntata della prima stagione di “3%”, acclama il discorso di benvenuto, un vero gioiellino di retorica motivazionale.
In “3%” il mondo è suddiviso in due parti, Inland e Offshore. Non si narra quando questa divisione ebbe inizio, ma solo del suo leggendario  fondatore, che comprese il principio della felicità: relegare il 3% della popolazione in un luogo perfetto, senza ingiustizia, bruttezza, povertà o peccato e abbandonare il restante 97% alla devastazione di una favela in cui il cielo è sempre grigio e criminalità e violenza hanno la meglio.
Questa selezione è conosciuta come il Processo, l’evoluzione ultra-tecnologica di una estenuante selezione del personale che prevede una serie di prove ad eliminazione diretta. A capo di questa complessa macchina dalla gerarchia aziendale, c’è Ezequiel. Scelta narrativa a proposito molto interessante e intelligente, aver affidato a questo personaggio l’arduo compito di introdurci all’Offshore che, per l’intera prima serie, è solo descritto e raccontato ma mai scorto.
Ezequiel, perfetto testimone (o testimonial) e profeta di una vita migliore, accoglie i fedeli al grande meeting-rituale che si svolge in una prigione dal dressing minimale, simile ai grandi alberghi che ospitano congressi e convention. Così, da vero perno bifronte della storia,  veste ora i panni del manager e ora quelli del predicatore: Ezequiel è angelico e diabolico insieme, invincibile come un eroe e saggio come un vecchio, algido ma dagli occhi scuri e oscuri, allarga il sorriso masticando parole terribili, uccide con grazia, trasuda violenza ma muove a compassione.
Pensare al profeta biblico è inevitabile e proprio nel libro di Ezechiele troviamo un fatto curioso: fra tutti i profeti, lui è il solo a propugnare una concetto di profezia che nulla ha a che fare con la preveggenza del futuro, ma piuttosto con una visione profonda e lucida del presente.
Che sia un caso o meno, puntata dopo puntata, nello spettatore sorge sempre di più il dubbio se “3%” sia solo una finzione distopica e catartica o piuttosto una profezia, la visione profonda di quello che è già la nostra contemporaneità: un Processo senza fine per riaffermare continuamente che ”io valgo”, eco del mantra ripetuto da Ezequiel più volte: “No matter what happens: you deserve it!”. Ezechiele, quello dell’Antico Testamento, invece scrive: “Vi raccoglierò in mezzo alle genti e vi radunerò dalle terre in cui siete stati dispersi e a voi darò il paese d’Israele. […]. Darò loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo metterò dentro di loro; toglierò dal loro petto il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne” (11, 17 – 21). Dio però è roba passata: in 3% la divinità è sublimata nelle skills da curriculum vitae richieste agli aspiranti idonei all’Offshore: retorica, caparbietà, fiducia in se stessi, nessuna concessione all’empatia e alla solidarietà. Il Messia atteso è la propria immagine trasfigurata dall’accettazione altrui – avete presente la funzionalità di Linkedin con cui si confermano le competenze dei contatti conosciuti? – accettazione basata su criteri di efficienza ed efficacia, resilienza e sopravvivenza: la terra promessa sarà il privè dell’ “impiegato del mese”, promosso finalmente allo stesso livello esistenziale del profeta. Ezequiel allora è il lato oscuro della nostra quotidianità gerarchica, dove la parità si deve guadagnare, il team building detta regole di convivialità e il peggiore degli scenari possibile, è già in atto senza che l’Offshore sia mai, davvero, tangibile.