MARIA DOLORES PESCE | Emanuele Conte a mio parere costruisce questa sua regia-drammaturgia de “I Giusti” di Albert Camus, nella traduzione di Giulia Serafini, su una sorta di triplice orizzonte temporale, quello degli eventi narrati, quello del narratore ed uno, infine, che è una suggestione di momenti a noi ben più vicini.
Il primo orizzonte è ovviamente quello della Russia prerivoluzionaria attraversata da pulsioni insurrezionaliste a prevalente matrice anarchica ed individualista, il secondo è relativo agli anni immediatamente successivi il secondo conflitto mondiale durante i quali Camus stesso sembrava mettere in discussione e ripensare, anche con questo suo scritto, i termini e le azioni del conflitto anti-fascista, e l’ultimo invece, credo, riguarda i nostri “anni di piombo” e le vicende ad esempio delle Brigate Rosse, eventi questi ultimi che costituiscono oggi una sorta di rimosso per le stesse generazioni che lo hanno vissuto, divenute per volontà o condizionamento silenziose e prive di una vera elaborazione.
Questa specie di triangolazione consente così di trascendere le più immediate considerazioni storiche o politiche per aprire ad una riflessione più ampia, etica in primis e metafisica di conseguenza, che riguarda la natura e l’essenza stessa dell’umano e dell’umanità, ben intuendo tra l’altro le intenzioni del testo stesso.
È infatti indubbiamente fondato considerare la mitologia del tirannicidio, indagato profondamente anche dalla coeva letteratura russa a partire da Dostoewskij, più di matrice lato sensu religiosa, in quanto legata all’idea del sacrificio e alla introiezione profonda delle modalità del capro-espiatorio, piuttosto che ad una visione scientifica, in senso marxiano, dei sommovimenti e delle evoluzioni sociali.
L’assassinio politico, inteso come la soppressione dei simboli dell’oppressione, è rimasto così storicamente a lato dei processi rivoluzionari, a partire proprio dalla rivoluzione sovietica, ma nel contempo per le sue stesse caratteristiche è stato sempre in grado di mettere per così dire in “tensione” e sofferenza tali processi e le loro modalità, in quanto portatore di una idea dell’umano e dell’umanità che tendeva costantemente a prescindere dalle contingenze storiche o più immediatamente politiche.
Ne nasce qui una riflessione drammaturgica speculare alle contraddizioni dello stesso autore, che progressivamente trasmigra dalla militanza comunista a posizioni più anarchiche innervate da approcci metafisici e talora di stampo religioso pur nell’ateismo sempre dichiarato (del resto in molti atei il rapporto con il divino è spesso assai più complesso), approcci che rinnegavano cioè una visione laica della Storia e dei rapporti sociali, ma anche psicologici e quindi estetici, in essa conflittualmente incardinati.
La regia di Conte coglie con acutezza questo complesso avvicendarsi e ribollire di suggestioni che scenograficamente espone mettendo al centro della scena una grande gabbia sopra la quale, ovvero dentro la quale, sviluppare la narrazione, quasi ad esplicitare la inevitabile corrispondenza tra gabbie fisiche e sociali, attorno a noi, e gabbie psicologiche, dentro di noi. È una scelta interessante che consente di riarticolare anche visivamente gli eventi.
Attorno e sopra a quella gabbia, infatti, i cinque protagonisti dibattono di necessità storiche e di necessità etiche e di quanto le une possano confliggere con le altre, ma soprattutto sono essi stessi l’evidenza di quanto l’esigenza dell’agire per la “giustizia” rischi a volte di annichilire le radici e l’essenza di una umanità che precede e talora prescinde quella stessa giustizia. Così Ivan inizialmente non osa compiere l’attentato al Granduca per non uccidere i bambini che erano con lui.
La riflessione prosegue poi dentro quella stessa gabbia mentre sfilano le maschere contorte e grottesche del mondo che quell’atto vuole giudicare non tanto per respingerlo quanto per cancellarlo dal suo oscuro orizzonte.
Un testo complesso dunque, ricco di suggestioni storiche ma anche più direttamente eistenziali (e questo credo debba riguardare ognuno di noi), un testo che Emanuele Conte in un certo senso “giudica” drammaturgicamente per cercare di rintracciarne le radici più profonde.
In scena i cinque protagonisti che si confrontano senza nulla nascondersi sono egregiamente interpretati da Sarah Pesca, Gianmaria Martini, Luca Mammoli, Graziano Sirressi e Alessio Zirulia.
Le scene, molto interessanti come detto, sono di Luigi Ferrando, i bei costumi di Daniele Sulewic e le luci di Matteo Selis. Produzione Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse di Genova.
Una riuscita prova di coraggio soprattutto per la scelta di portare in scena eventi e riflessioni non consuete nel panorama italiano contemporaneo. Alla Sala Trionfo dal 22 al 25 febbraio e dal 28 febbraio al 4 marzo. Alla prima il teatro pieno ha a lungo applaudito.
di Albert Camus
traduzione Giulia Serafini
regia di Emanuele Conte
con Luca Mammoli, Gianmaria Martini, Sarah Pesca, Graziano Sirressi e Alessio Zirulia
scene Luigi Ferrando
costumi Danièle Sulewic
luci Matteo Selis
assistente alla regia Alessio Aronne
assistente costumi Daniela De Blasio
produzione Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse