ANDREA OLIVA | In scena a metà Marzo alle Officine Caos di Torino, Lorenzo Bartoli con il suo spettacolo “L’inscatolasalmoni del Quebec” tenta di rappresentare un problema in Italia molto sentito: nella condizione di deprivazione in cui ci troviamo oggi, che sia materiale spirituale o politica, riusciamo a pensare di combattere, riusciamo almeno a darci alla fuga? O di fronte a noi non c’è che l’inedia, un’alienante ripetizione dell’identico, fino alla morte per consuzione?
Bartoli mette in scena tre storie parallele, che sono anche una sola storia raccontata in tre tempi diversi. Vi è innanzi tutto un nonno riesumato, con il corpo ancora integro, che nei suoi andirivieni tra Italia e Quebec abbandonò per dodici anni la moglie cui aveva promesso “l’America” e il figlio. Questo abbandono fa sia da prologo che da “precedente” per le decisioni che vaglierà il protagonista Renato, detto R, ed è anche, con le dovute distinzioni, biografia in breve del reale nonno dell’attore. Ma è di R che si parla sopratutto nello spettacolo, uomo sposato e con un figlio piccolo, in rotta con la famiglia, che detesta il suo lavoro e sogna il Quebec, a tal punto da pensare di ricalcare le orme del nonno, nel bene e nel male. La triade infine si conclude con il Re del ghiaccio, un R divenuto salmone in Quebec, che tenta, sfuggendo reti e orsi, di risalire la corrente e riprodursi a tutti i costi.
Ogni aspetto del personaggio ha uno spazio preciso sulla scena. R che ricorda il nonno si trova spalle al pubblico tra due “muri” semoventi composti da lastre traslucide. R che parla alla moglie Manuelinda è seduto ad un lato del palco. R che lavora si sposta dall’altro lato invece, chiuso in un quadrato di luce, per terra a quattro zampe, vestito con camice e un cappello-imbuto grigio, oggetto che trasforma il suo volto in un muso. R Re del ghiaccio infine, sta in piedi al centro con le lastre dietro di lui che ora hanno chiuso lo spazio della memoria e riflettono le luci mosse da un ventilatore nascosto nel buio, a ricordarci l’aurora boreale, lo spazio del sogno.
Ad ogni parte del palco quindi è affidato un diverso elemento delle storie, che si intersecano mettendo a nudo R e il “suo” problema. Quando R ricorda il nonno la sua voce proviene fuori dalla scena, è infantile e la storia che racconta è iperbolica e positiva come potrebbe raccontarla un bambino, senza ombre. La sedia è il momento confessionale invece, a Manuelinda R esprime i suoi desideri e i suoi malesseri con la famiglia, una voglia di fuggire potente, che nessuno però sembra davvero ascoltare. Ma è nei momenti in cui Bartoli rappresenta il lavoro che emergono più potentemente le influenze dello spettacolo, il quadrato di luce è una gabbia, con tanto di scosse elettriche, una deumanizzazione evidente, sottolineata anche dalla trasformazione in topo attraverso il cappello-muso, citazione del film “Mon oncle d’Amerique”, con cui lo spettacolo ha anche in comune il tema etologico “fight or flight” sviluppato da Henry Laborit in “Elogio della fuga”. Tema centrale per la/e storia/e. Lo studio dell’etologo, che ha evidenziato i benefici, in termini anche somatici, delle risposte violente o di fuga a stimoli negativi, pone immediatamente un interrogativo: cosa succede quando nessuna delle due strade viene intrapresa, cosa succede quando si reprimono i soprusi e la sofferenza?
La risposta di R è sognare il Quebec, sognare di trasformasi in un salmone e viverne la vita tra i fiumi del Canada, finalmente libero da responsabilità, vincoli e lavoro. C’è un salto che si deve fare mentre Bartoli, senza preavviso, ci trasporta nella vita di un pesce d’acqua dolce. Sebbene si sia spiazzati dal cambio di tono e dal senso di libertà in cui all’improvviso siamo immersi non possiamo dimenticare ciò con cui abbiamo a che fare, una metafora di diniego della realtà, una fuga immaginifica che non cambia lo stato delle condizioni di R, che anzi rimarrà scottato anche da questo tentativo puerile di sciogliere le sue catene.
Lorenzo Bartoli tenta di dare voce, solo sul palco ma purtroppo nell’arco di una sola ora, alla solitudine di un uomo incapace di muoversi. Lo fa abilmente trasformandosi sul palco a seconda di quale aspetto della personalità di R ci stia parlando, quando è in piedi ci trasporta in un sogno di assurda grandezza, di spazi aperti e felicità a portata di mano, ci fa sperare, falsamente, di poter superare la vita chiusa, fatta solo di occasioni mancate, contro cui sputa rabbia quando seduto, in uno stato di inazione. Ma nessuno di queste posizioni rappresenta la vera vita di R quanto la condizione di prostrazione di quando ci parla dalla gabbia-lavoro, ed è sopratutto in quella posizione che Bartoli riesce a farci sentire, con uno sguardo che osserva il pubblico dal basso all’alto, con la voce caratteristica di chi è schiavo di un rapporto di potere ingiusto, tutta l’empatia per una vita sconfitta.
di e con Lorenzo Bartoli
musiche e suoni originali Massimiliano Bressan, Massimo Valerio
collaborazione artistica Manuela Savioli
produzione FancyFranchising
con il supporto di Tangram Teatro