MATTEO BRIGHENTI | Scrivere è credere che domani andrà meglio. È la costruzione artigianale della possibilità di un futuro, su una carta geografica di parole che uniscono speranze come terre lontane. E dipende da noi, perché siamo noi, la pagina è uno specchio fedele.
Se le mani tremano, il foglio cade e s’infrange, diventiamo il professor Veronà di Un quaderno per l’inverno: il domani è negato dalla ripetizione continua del presente, cioè del momento in cui dell’orizzonte sono rimasti soltanto i frantumi. L’epicentro di questo particolare tremore, comune a tutti e unico per ciascuno, è la perdita dell’amore. Veronà si lascia vivere e non prende in mano la sua penna da anni. Da solo non può farcela, si è spinto così oltre nella rimozione di sé che ha bisogno di qualcuno che lo aiuti a raccogliere i pezzi e a rimetterli insieme.
La vita, spesso, non è gentile, ma l’autore di questo breve (meno di un’ora) e ispirato testo, Armando Pirozzi, lo è stato a tal punto con il suo personaggio da farlo imbattere nel suo salvatore, Nino. Una gentilezza che Massimiliano Civica assiste e cura con una regia che ha il rigore caparbio di un amanuense benedettino e la forza nascosta della ginestra leopardiana.
Il Fabbricone di Prato, dove lo spettacolo, prodotto dal Teatro Metastasio con il sostegno di Armunia, si dà in prima assoluta, è uno spazio che il vuoto della scena rende immenso. Solamente un tavolo bianco e due sedie rosse attestano la presenza di essere umani oltre a noi: sono Alberto Astorri (Veronà) e Luca Zacchini (Nino). Arrivano dal fondo all’improvviso, decisi, quasi marziali, e si fermano sulla soglia tra il buio, l’esterno, e la luce, l’interno dell’appartamento di Veronà.
Tutto questo nulla che preme e opprime, che non si vede, ma si sente, sembra la manifestazione scenica della “fortezza vuota” di cui lo stesso Civica parlava con Attilio Scarpellini nel loro discorso sulla perdita di senso del teatro in seguito alla riforma ministeriale: “la paura, l’insicurezza e l’opacità del mondo possono portarci a rinchiuderci dentro di noi, a costruire una fortezza che tenga fuori la realtà e gli altri”.
È ciò che è successo al professor Veronà, docente universitario di letteratura. Il mondo, però, si presenta comunque alla sua porta, o meglio, è proprio la sua porta, perché Zacchini stende il braccio sinistro, apre le dita della mano ed è qui che Astorri infila le chiavi di casa. Varcata la soglia, la ‘porta’ si richiude sulla sua gola: con l’altro braccio adesso Nino gli punta contro un coltello. È un ladro, ma la sua richiesta somiglia più a un enigma che a un furto: non è venuto per niente e, al tempo stesso, per non prendere niente.
La barba, il berretto, il giubbotto, Luca Zacchini (stavolta senza Gli Omini) ha lo sguardo allucinato del tossico in cerca della dose, tra il vitreo e l’impaurito. Per lui è una questione di vita di fronte alla morte. Alberto Astorri (lontano dalla sodale Paola Tintinelli) indossa gli occhiali e un completo marrone sdrucito, da professore che tira tardi al ricevimento con gli studenti. Duro e amaro, ma unicamente con se stesso, altrimenti tenero e pieno di compassione. Per lui, invece, è una questione di morte di fronte alla vita.
Sono due solitudini, più precisamente due facce, l’illusione e la disillusione, della medesima solitudine. Insieme al computer, subito ricettato, Nino aveva rubato al professore il suo quaderno delle poesie: una ha prodotto una qualche reazione in Anita, la moglie in coma. Perciò è venuto, questo è il suo ‘furto’: vuole un’altra poesia per tenerla in vita e Veronà deve comporla ora, immediatamente, seduta stante. Il problema è che il professore ha smesso di scrivere, perché secondo lui non ha più senso parlare d’amore, di chi entra ed esce dalla propria esistenza come se nulla fosse.
Un quaderno per l’inverno assume l’andamento di un giallo tragicomico, di un thriller sulle fragilità umane e sulla capacità della scrittura di incidere sulla realtà, attraverso la carica vitale che sprigiona. La colloquiale naturalezza è il risultato di un’impavida semplicità di tocco, affatto semplice, di Massimiliano Civica, una direzione di sottrazione evanescente, a togliere, levare, che “serve a portare – spiega nelle note di regia – ancora di più in primo piano, rispetto a quello che ho fatto in passato, il rapporto tra esseri umani nel qui e ora del rito teatrale, l’incontro ‘al presente’ tra gli uomini sulla scena e quelli in platea”. Un rito che, a differenza di Alcesti, vibra delle passioni del cuore al posto degli artifici del pensiero.
Veronà obbedisce e si mette a scrivere. I due poi si rincontrano, scandisce Alberto Astorri, “tre ore dopo”. Il luogo, le luci, le posizioni sono le stesse, lo scarto, l’abisso che si è aperto, è la morte di Anita. Nino non ha fatto in tempo: se ce l’avesse fatta è convinto che sarebbe ancora viva. Sicuramente la poesia era perfetta, anche se lui non l’ha letta, né tantomeno vuole leggerla. La lama del coltello rimanda il riflesso dell’inettitudine del ladro come il quaderno è il ritratto di quella del professore.
Così, il “qui e ora” di Un quaderno per l’inverno si distende con passo quotidiano, vero, tra attesa e disperazione, irrazionalità ed empatia. Veronà era entrato all’inizio con una busta di plastica piena di arance: Nino ne prende tre e le taglia in sei spicchi. Da un cassetto del tavolo il professore estrae lo spremiagrumi per fare la spremuta. Si sente il rumore e anche il profumo mentre gira gli spicchi, Luca Zacchini spreme la polpa come del resto fa la scrittura con la vita, poi passa anche il dito tutto intorno per raccogliere il succo fino all’ultima goccia.
Sono gesti calibrati, da officiante di una cerimonia quasi di riconciliazione con il dolore, la perdita, e di celebrazione della dignità dell’esistenza di chi rimane. Tanto che riempie due bicchieri con la medesima attenzione e precisione millimetrica.
Bevono e la conversazione comincia a scorrere nell’alveo della normalità, gli esami, la famiglia, il condominio. Sembra un punto d’arrivo, ma non è così, perché se Nino, in qualche modo, è riuscito a rimettersi in piedi, lo stesso non si può dire di Veronà. Questa volta è Zacchini, asciugato meticolosamente il tavolo con un panno, ad annunciare la data del loro nuovo incontro, cioè “otto anni dopo”, riprova che, in fondo, sono la stessa persona, il tempo di ognuno appartiene a entrambi.
Nino ha bisogno di soldi per il matrimonio del figlio, ormai diciottenne. Si è risposato, mentre Veronà è sempre solo, perché ancora non si è fatto una ragione che lei lo abbia lasciato. Il professore si trascina come un automa nell’identità sociale che, bene o male, si è ritagliato, ma chi è, nel profondo, una volta chiusa alle spalle la porta di casa non lo sa più.
La ragione che cerca non la trova nemmeno a questo tavolo di ravvicinamento liberatorio e forse non la troverà mai, semplicemente perché non c’è. C’è Un quaderno per l’inverno, la poesia del figlio che Nino legge a Veronà e che, non a caso, dà il nome allo spettacolo: la vita non si spiega altro che con la vita. Cioè, vivendola.
Allora scrivere è soprattutto voltare pagina, cambiare specchio. Il nostro talento più grande è la capacità di riuscire a risorgere: se ammettiamo, accettiamo il dolore, possiamo, come canta Vasco Brondi in A forma di fulmine de Le luci della centrale elettrica, anche “fare caso a quando siamo felici”. Il sorriso di questi due comici e non più spaventati guerrieri è già un sì.
UN QUADERNO PER L’INVERNO
di Armando Pirozzi
uno spettacolo di Massimiliano Civica
con Alberto Astorri e Luca Zacchini
costumi Daniela Salernitano
scene Luca Baldini
produzione Teatro Metastasio di Prato
con il sostegno di Armunia – Centro di Residenze Artistiche Castiglioncello
Visto sabato 18 marzo 2017, Fabbricone, Prato. Lo spettacolo sarà al Teatro India di Roma dal 19 al 23 aprile 2017.