RENZO FRANCABANDERA | La dialettica interna all’Uno, il principio unitario di cui tutto fa parte, è uno degli elementi più fecondi della nostra cultura filosofica occidentale, e lo è diventata ancor più a seguito dell’affermazione delle religioni monoteiste, con un ulteriore sviluppo fra il secondo e terzo secolo dopo Cristo. Se ne occupò oltre che Platone, un suo seguace, Plotino, che visse nel III secolo d.C.
Il filosofo sosteneva in particolare con una metafora efficace che l’artigiano costruisce l’Uno a partire dai molti, cioè assemblando più parti tra loro, la natura sembra operare in senso inverso: da un principio semplice fa scaturire il molteplice.
Sembra la si prenda un po’ alla lontana quando affiorano certi pensieri a proposito di una visione teatrale. Ma in fondo questo è un bene: vuol dire semplicemente che si tratta di uno dei non frequentissimi casi in cui le domande continuano a venir fuori anche dopo un certo tempo dalla fruizione.
Una vecchina (Enzo Vetrano) e un uomo maturo (Stefano Randisi) vivono apparentemente nella stessa casa, dove compiono azioni di vita quotidiana umile, come mangiare, andare in bagno, parlare da soli a voce alta, o rivolgendosi agli animali che abitano con loro: la gallina Santina e il topo Beniamino. Alla parete il grande ritratto in abiti d’epoca dei genitori (i Fratelli Mancuso), che di tanto in tanto fanno sentire la loro voce con lirici assoli o divertiti commenti.
Lo spazio fra sé e il proprio doppio è grande, a volte semplicemente quanto l’invenzione letteraria o filosofica. All’interno della coppia poi, nelle pieghe dello specifico di genere, da sempre la poesia trova modo di raccontare quello che pare plurale, ed invece si può facilmente condensare in un unico.
La dialettica nel Novecento ha aggiunto a tutto ciò la sua declinazione teatrale parossistica, con l’assurdo e la macchina kantoriana all’interno della quale si condensava la babele di pensiero: il molteplice si condensa si in un principio unificatore, ma disordinato, il Caos, una sorta di buco nero che tutto assorbe e in cui tutto finisce, il cui paragone con la morte è facile. Come in Delirio a due di Ionesco, ad esempio, una delle opere che indaga le relazioni interpersonali estenuanti e problematiche, anche in Assassina il verboso accanirsi senza senso, il nascondere le verità finte e condividere le vere falsità, aiuta a rivelare alla contemporaneità la fatica necessaria ad accettare l’altra parte di noi, quella che ci accompagna, che ci segue come un’ombra, che non riusciamo a scacciare. Ed è proprio questa la scena iniziale della pièce, con la vecchia che tenta di scacciare le sua ombra senza successo.
Franco Scaldati, attore, regista e drammaturgo siciliano, figura centrale del teatro sull’isola negli ultimi decenni del Novecento e il primo decennio del nuovo secolo (è scomparso nel 2013), è stato portatore di una cultura che di quei lasciti filosofici antichissimi ma che anche della lezione del teatro dell’assurdo e della macchina di Kantor è a suo modo erede.
Assassina è un viaggio a ritroso nel plurale umano, che parte da storie di vita ed esistenza diverse, per quella che nel finale sembra essere una ricomposizione unitaria, disordinata e che abbraccia la morte, altro tema caro all’autore, sempre in bilico, con i suoi personaggi, fra il reale e il sovrumano, fra il pre e il post-mortem. Ecco quindi che l’unità di Plotino che ci ronzava in testa ci porta al confronto con il caos del nostro tempo e ci costringe a ragionare su cosa resta di quell’eredità di pensiero, filtrata attraverso la lente distorta del teatro.
Assassina è un testo erede di quel teatro, un quadro vivente di lirica poesia, con Mela Dell’Erba a disegnare una scena in cui gli avi suonano musica antiqua con strumenti d’epoca e in abiti secenteschi, illuminati da luci degne di Gherardo delle Notti, mentre davanti ai loro occhi si muove un’umanità anziana e imbruttita, che a mala pena ha cosa mettere in pentola, in un casa senza soffitto e senza cucina, un interno con cesso a vista, topi e Madonnina di devozione.
I due protagonisti apparentemente non si conoscono, non si sono mai incontrati, anzi ignorano l’uno l’esistenza dell’altro. E quando improvvisamente, una notte, si scoprono abitanti dello stesso spazio, inizia il conflitto di proprietà, che poi diventa conflitto di identità. Un conflitto che lascia lo spettatore ad interrogarsi, come già era stato con Totò e Viciè, la precedente drammaturgia di Scaldati portata in scena da Vetrano e Randisi, sul fatto che i personaggi siano vivi, spiriti, o il classico incontro fra dimensioni dell’esistenza distanti ma messe inspiegabilmente in comunicazione dal teatro.
La recita, inutile dirlo, si avvale di quel mestiere, di quella capacità dei grandi attori passati per decenni di palcoscenico, di rendere l’atmosfera rarefatta dell’incertezza, sofisticata dal dialogo stridente con la musica dei Fratelli Mancuso, la cui presenza scenica è sicuramente più efficace e dialogante con l’esito nel suo complesso di quanto non lo siano gli inserti video, che potrebbero voler alludere ad un possibile parallelismo fra queste umanità immaginarie e la città reale, periferica, ma sognata, e ripresa in una carrellata notturna in movimento, fra casermoni di periferia che sembrano delimitare un mondo tutto uguale, nella sua difesa di un’intimità impaurita e chiusa su se stessa. Ma forse questo è un passaggio logico non immediato con il narrato scenico e che rimane meno nella persistenza di lungo termine, dove invece acquistano la loro grandezza gli attori, i gesti, le espressioni, come in fondo è giusto che sia in questo teatro, che è grande teatro di prosa.
Le foto di questo articolo sono di Luca del Pia
ASSASSINA
di Franco Scaldati
regia di Enzo Vetrano e Stefano Randisi
scene e costumi di Mela Dell’Erba
musiche e canti originali composti ed eseguiti in scena dai Fratelli Mancuso
con Enzo Vetrano (la vecchina), Stefano Randisi (l’omino) e i Fratelli Mancuso (i genitori)
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione