EMILIA_foto di A.Le Pera_ Giulia Lazzarini e Sergio Romano .02

LAURA NOVELLI | “Giulia adorabile e adorata! Tutto il mio bene, la mia stima a te, da sempre, se ci pensi bene. […] ti ho ritrovata sempre più brava, straordinariamente brava, matura, cosciente, precisa, lucida e abbandonata, sempre giustamente sospesa tra intuizione e critica, in un equilibrio quasi incredibile tra un altissimo mestiere di teatro e una freschezza poetica, invenzione fantasia e rispetto per quello che si deve dire e fare […]”.

“Giulia. La tua semplice grandezza di interprete è sempre pura, è sempre limpida e ha sempre il segno della verità, della poesia, della forza e della delicatezza allo stesso tempo. […] Io penso che questa sera, in mezzo a mille dubbi e incertezze del cuore e della mente, qualcosa di nuovo di te verrà alla luce. Per te stessa e per gli altri. Penso che stasera il mondo (quello riassunto dal teatro) scoprirà una nuova dimensione di te, più alta e più forte e più sicura. […]”.

“Giulia cara! Una riga per abbracciarti. Non ho niente da dire a te se non pensare che sarai te stessa, questa sera. Ma proprio tutta, tutta, come sai. Manda via il resto e lasciati andare all’incredibile gioia di interpretare Ariel nella nostra Tempesta che non è nostra ma di Shakespeare. Noi possiamo solo essere voci più sonore o più intonate di altre e basta. Ma non è poco. Ti stringo con tutto il mio affetto”.

Sono solo tre brevi stralci delle tante lettere che Giorgio Strehler scrisse a Giulia Lazzarini (la prima nel ’73, in occasione dell’Opera da tre soldi di Brecth; la seconda per Giorni felici di Beckett nell’82 e la terza per La Tempesta di Shakespeare l’anno successivo) durante il loro lungo, luminoso e prolifico sodalizio artistico. Le cito traendone due dal bel volume Lettere sul teatro (Archinto editore) e una dall’Archivio del Piccolo di Milano. Le leggo. Le rileggo più volte. E gli aggettivi che il Maestro riserva a questa nostra grande attrice (premiata il 26 marzo con il Premio Franco Enriquez 2016-2017 alla Carriera), al suo stile recitativo vibrante, autentico, personalissimo, “sospeso tra intuizione e critica”, tra evanescenza e concretezza, li trovo perfettamente adattabili all’ultimo ruolo con cui la Lazzarini si sta misurando in queste settimane all’Argentina di Roma: quella Emilia che dà il titolo all’omonima pièce del drammaturgo, attore e regista Claudio Tolcachir, uno dei maggiori protagonisti della scena argentina contemporanea (è nato a Buenos Aires nel ’75 e ha all’attivo opere che, proprio come nel caso del conterraneo Rafael Spregelburd, vengono rappresentate con successo a livello nazionale e internazionale, e basti citare titoli quali La Omisión de la Familia Coleman, Terzo corpo, Il vento in un violino, Dinamo).

La genesi di questo allestimento italiano di Emilia, che vede nel cast anche Sergio Romano (Walter), Pia Lanciotti (Carolina), Josafat Vagni (Leo), Paolo Mazzarelli (Gabriel) e che è diretto dallo stesso autore, la spiega Antonio Calbi nelle pagine introduttive del programma di sala. E potremmo dividerla in tra passaggi: il desiderio di mettere in campo un progetto “con” e “per” la Lazzarini; la consonanza che l’attrice stessa avvertì con questo personaggio assistendo ad una versione argentina del lavoro proposta al Piccolo nel 2015 e, infine, l’incontro personale tra Calbi e Tolcachir proprio a Buenos Aires, dove l’artista lavora e dove ha fondato, alla fine degli anni Novanta, la Compagnia Timbre 4.

Insomma, un progetto complesso, lungo, ponderato. Come d’altronde merita uno spettacolo davvero molto interessante, costruito su un testo e un impianto registico di forti maturità ed originalità espressive. La trama è solo all’apparenza semplice: l’anziana ex-tata di un bambino divenuto ormai adulto (Walter) lo incontra per caso dopo vent’anni e accetta di andare a trovarlo nella sua nuova casa. Una casa ancora informe, dove c’è un trasloco in atto e dove l’uomo vive con una donna fragile, ansiosa, quasi stralunata (l’ottima Lanciotti) e un ragazzo adolescente. La minuta, cauta, gentile Emilia, prodiga in passato di attenzioni e cure più che materne, si ritrova ora al cospetto di un “figlio” maturo; scivola nella sua vita, nel suo quotidiano ritrovandosi invischiata nel progressivo dissolvimento tragico di una famiglia dai legami morbosi e controversi. Lo spazio/casa  in cui gli interpreti si muovono è pieno zeppo di scatole, buste, oggetti. Uno xilofono segna certi lievi passaggi emotivi. Gli interpreti sono tutti in scena sempre, anche quella figura maschile di lato che resterà in ombra a lungo, per poi irrompere in modo deflagrante nella vicenda.

EMILIA_foto di A.Le Pera_ Lanciorri, Lazzarini, Romano

La protagonista entra dal fondo tenuta per mano, si avvicina al proscenio, ci parla di un carcere, ci instilla l’idea che la sua rievocazione mentale – ciò che ci accingiamo a guardare/udire – l’ha portata lì, chiusa in una prigione. Ma ancora il quadro è confuso. Quando ella diventa di fatto l’ospite, la testimone, la visitatrice inattesa e ben accolta è come se il pubblico stesse nella sua testa, nei suoi pensieri, nei suoi turbamenti. Mi vengono in mente Ibsen, Strindberg, Norèn, Fosse. Paradossalmente, tutti autori nordici. Tutti autori che hanno investigato le malattie più nocive che minano la famiglia e i legami affettivi. Ma è la presenza sottile, garbata, leggera eppure dirompente di Emila (cappelli biondo cenere raccolti, lungo cardigan di lana aperto su una vestaglietta fantasia) ciò che qui più colpisce. Emilia è il passato e ciò che ella vede – rimanendone personalmente invischiata, come capiremo nel drammatico, violento, epilogo – è una “rappresentazione” di sentimenti finti, paranoici, claustrofobici. I tre attori che danno vita al nucleo familiare (tutti efficaci) appaiono volutamente sopra le righe, si abbracciano e si toccano continuamente: “mettono in scena” il loro menáge tra tensioni, pulsioni e manie misteriose.

Il testo procede incastrando diversi piani narrativo-temporali e l’autore usa molto di frequente battute prolettiche che anticipano fatti ed eventi successivi. Non esiste un “adesso” ma tanti pezzi di un puzzle composito di cui anche lo spazio si fa ampliamento metaforico. La regia affastella infatti sul palcoscenico i detriti di questa famiglia; la situazione di trasloco è metafora di una distruzione implicita, interna, profonda. Ad un certo punto, l’uomo seduto in penombra accenna alla morte; racconta come di una persona morta si dimentichino innanzitutto le mani, poi il viso, il sorriso. Quest’uomo è il padre naturale del ragazzo e, quando entrerà in quel ring di macerie, la distruzione sarà ormai già in atto; già necessaria e inevitabile.

Emilia resta con loro a cena. Poi si ferma per la notte. Chiede acqua e non l’avrà. Chiede un biscotto e non lo avrà. In un questa lunga visita/veglia la recitazione della Lazzarini davvero prende al cuore, alla testa: con le sue piccole evoluzioni di registro, la sua voce ora flebile ora più possente, le mani strofinate sugli occhi, ci racconta un sacrificio umano che la pone al di sopra di ogni tensione e però la condanna ad una complicità pagata a caro prezzo. Per certi versi mi ricorda la splendida governante di casa Samsa interpretata da Giuliana Lojodice ne Le conversazioni di Anna K di Chiti (era il 2009) o la logorroica inserviente/Annamaria Guarnieri di Memorie di una cameriera di Dacia Maraini (regia di Ronconi, 1997) ). Emilia guarda con sospetto il dramma che si svolge sotto i suoi occhi. Mentre la posticcia realtà degli altri precipita in una prossemica relazionale agghiacciante, questa tenera vecchia tata contiene in sé tutta la forza dei sentimenti che non mutano; tutta la forza della natura, del fisiologico evolversi degli affetti. E quando Walter, preso da un raptus di gelosia, uccide Caroline, Emilia resta lì a guardare. Inorridisce, ma poi lo rassicura, lo accoglie nel suo immenso cuore. Quasi fosse la Grande – Piccola – Madre di ogni popolo e di ogni civiltà. Da non perdere.

EMILIA

scritto e diretto da Claudio Tolcachir

con Giulia Lazzarini (Emilia),

Sergio Romano (Walter), Pia Lanciotti (Carolina),

Josafat Vagni (Leo), Paolo Mazzarelli (Gabriel)

scene Paola Castrignanò

costumi Gianluca Sbicca

luci Luigi Biondi

regista collaboratrice Cecilia Ligorio

PRODUZIONE TEATRO DI ROMA – TEATRO NAZIONALE

Dal 25 marzo al 23 aprile al Teatro Argentina di Roma

in prima nazionale