ANDREA OLIVA| Orchidee di Pippo Delbono è un racconto autobiografico che si fa racconto di ogni uomo, non attraverso una storia lineare in cui identificarsi ma attraverso la rappresentazione poliedrica delle emozioni che toccano inevitabilmente tutti durante la vita: l’amore, sopratutto materno e filiale, grado zero e origine di tutti i complessi simbolismi che attraversano lo spettacolo, e la mancanza, alla morte del nostro oggetto d’amore.
In Orchidee, alle Fonderie Limone di Moncalieri a fine Marzo, si cuciono insieme, su un palco completamente privo di scenografia, tanti frammenti molto diversi fra loro, “quadri” composti tanto dalla recitazione quanto dall’uso del video, a volte un fondale a volte protagonista, e collegati a-logicamente e a-temporalmente, tanto da rendere impossibile narrativizzare gli eventi che osserviamo. Scene il cui scopo non è tanto raccontare un quid quanto farci toccare con mano le emozioni che Delbono vuole trasmettere.
L’inizio dello spettacolo ci introduce subito nell’atmosfera colloquiale con cui vengono trattati i profondi temi in gioco. L’usuale messaggio agli altoparlanti che avvisa, prima che si alzi il sipario, di spegnere il telefono, si rivela essere Delbono stesso, seduto dietro agli spettatori, che introduce il suo spettacolo chiacchierando del più e del meno. Passando dall’assurdità della necessità di richiedere un comportamento corretto durante uno rappresentazione teatrale, all’augurio scontato, ma nello stesso tempo per nulla scontato, di divertirsi durante lo spettacolo, fino ai racconti personali del rapporto con la madre. Un rapporto, quello madre-figlio, strutturale per lo spettacolo, spesso causa sottintesa delle azioni sul palco, anche perché fu proprio la morte della madre a spingere Delbono, tra le altre cose, a scrivere Orchidee.
A causa proprio di questo evento, la morte, Delbono è costretto a confrontarsi con il contrario dell’amore materno, il vuoto, la mancanza. Una sensazione di fame di affetto che provoca la ricerca spontanea di riempitivi, di altre forme di amore, di altre verità meno assolute dell’amore materno. Si alternano sul palco video e brevi scene che tentano di dar voce al senso di vuoto, a carenze e privazioni, ma anche a emozioni di pienezza e gioia, queste sopratutto attraverso le danze, tutte diverse e tutte altamente simboliche, che intervallano lo spettacolo. Delbono ci racconta il quotidiano e frammenti di vita, come quella di Bobo, attore muto liberato da un manicomio, costruisce sequenze altamente simboliche in cui musiche, video e attori compenetrano le loro performance iniziandoci ad una emozione pura, ed ancora ci fa ridere con scenette comiche al limite del non-sense come la messa all’asta di quadri famosi, Monet, Manet ed altri, trovati in soffitta dalla nonna ed utili per riparare ai momenti di crisi economica.
Quando, dopo una sequenza non lineare di suggestioni, il discorso iniziale del rapporto materno viene ripreso mostrandoci in video i momenti finali della madre di Delbono, crediamo di essere arrivati alla conclusione, di avere chiuso il cerchio, ma non è così. Delbono ci propone più “fini”, una dietro l’altra, incapace, secondo le sue parole, di chiudere davvero l’esibizione, fino a che, senza più parole, coinvolge il pubblico in una danza quasi rituale, ultimo gesto prima che cali il sipario.
Nonostante la perfetta comprensibilità degli intenti dello spettacolo e la loro riuscita, ossia suggestionare lo spettatore con scene che lasciano un segno emozionale non indifferente più che accompagnarlo in un racconto, la decifrabilità di ogni singolo “quadro” non è affatto scontata. Vi sono più parti oscure e inintellegibili nei loro simbolismi, le concatenazioni irregolari così come il saltare di palo in frasca non aiutano a seguire i discorsi, tanti e non banali, che Delbono getta sullo spettatore. La ripresa, nei vari finali, di alcuni dei discorsi iniziali dello spettacolo ci aiuta a chiudere alcune sollecitazioni ma non si può fare a meno di avere la sensazione di essere di fronte ad un patchwork il cui ordine degli elementi non importa, la cui coerenza si è persa, diminuendone l’impatto emotivo. Certamente la suggestione è uno strumento congeniale per emozionare senza dispensare verità, pericolo costante quando si tenta di parlare dell’Uomo. Non sarebbe guastato però che queste suggestioni possedessero, per lo meno, indizi dell’esistenza di una traccia che potesse essere seguita affinché il senso ne fosse comprensibile.
Perché Delbono compia questa scelta radicalmente anti-narrativa lo rivela lui stesso a metà spettacolo, vuole farla finita con le forme tradizionali del teatro, vuole smettere di portare finzione sul palco ma far parlare la verità, la vita, che come ben sappiamo non segue affatto trame narrative consequenziali e coerenti ma è caos senza soluzione di continuità.
ORCHIDEE
uno spettacolo di Pippo Delbono
con Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Bobò, Margherita Clemente, Pippo Delbono, Ilaria Distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinella
immagini e film Pippo Delbono
luci Robert John Resteghini
musiche di Enzo Avitabile e Deep Purple, Miles Davis, Philip Glass, Victor Démé, Joan Baez, Nino Rota, Angélique Ionatos, Wim Mertens, Pietro Mascagni
direzione tecnica Fabio Sajiz
suono Giulio Antognini
luci e video Orlando Bolognesi
elaborazione costumi Elena Giampaoli
capo macchinista Gianluca Bolla
Emilia Romagna Teatro Fo ndazione, Teatro di Roma, Théâtre du Rond Point- Parigi, Maison de la Culture d’Amiens – Centre de Création et de Production
Si ringrazia Cinémathèque suisse-Lausanne