LAURA BEVIONE | L’inaugurazione di un teatro può essere anche una fertile occasione per riflettere sul senso e il valore che questo luogo – anacronistico, forse? – ancora possiede nella nostra supertecnologica società. E, in effetti, la festa che sabato scorso, 8 aprile, ha celebrato la nascita “ufficiale” del teatro delle Ariette in località Castello di Serravalle, comune di Valsamoggia (BO), è stata anche un’opportunità per meditare sulla testarda sopravvivenza di quest’arte e sui rischi che essa deve essere abile a scansare per non auto-distruggersi.
Ma partiamo dallo “straordinario” evento che ha originato questa densa – di emozioni e di pensieri – giornata: il 28 giugno 1999 Stefano Pasquini, Paola Berselli e Maurizio Ferraresi – ossia la compagnia delle Ariette – inizia la costruzione di un edificio, il Deposito Attrezzi, inaugurato dopo meno di un anno, l’8 aprile 2000, da uno spettacolo di Armando Punzo e Nicola Rignanese, Teatro No.
Da allora lo spazio – un edificio rurale, essenziale e funzionale, scaldato con stufe a legna – ha ospitato tutti gli spettacoli realizzati dalla compagnia, così come quelli degli artisti invitati per l’annuale appuntamento del festival A teatro nelle case. Nell’estate dell’anno passato, nondimeno, Paola, Stefano e Maurizio hanno deciso di trasformare il Deposito Attrezzi – classificato al catasto quale “edificio rurale” – in un luogo “ufficialmente” destinato ad attività culturali e di spettacolo. Un cambio di destinazione d’uso discusso e approvato dal comune di Valsamoggia e accompagnato da alcuni, necessari, lavori di adeguamento – quale la sostituzione delle stufe con un impianto di riscaldamento a pompe di calore elettriche – realizzati dalla stessa compagnia e, ovviamente, autofinanziati. Dall’8 aprile, dunque, il Deposito Attrezzi è diventato, ufficialmente, Teatro delle Ariette, il primo luogo riservato alle arti performative costruito nella campagne, fra i dolci pendii dell’Appennino bolognese.
E sono stati molti – artisti, critici e molti fedeli spettatori – quelli che hanno raggiunto questa oasi di arte e bellezza per festeggiare il nuovo Teatro delle Ariette. Ad aprire la giornata è stato Marco Martinelli con la coinvolta lettura del suo Farsi luogo. Varco al teatro in 101 movimenti: il teatro come un “farsi luogo” nel mondo circostante, quale “strumento” per stare in mezzo alle persone – non semplici contemporanea. Martinelli passa in rassegna “etichette” – esiste davvero un “teatro sociale” ovvero tutto il teatro può/deve definirsi “sociale”? – e mestieri del teatro, tessendo un assai apprezzato elogio della maschera. Il teatro che vorremmo – o, meglio, che dovrebbe essere – e il cui ineguagliato potere sta tutto nell’immagine evocata al movimento numero 101: Marco nel camerino di Ermanna prima dell’inizio di uno spettacolo, il silenzio che precede la messa in scena/creazione di un mondo altro. Il silenzio che precede l’alzarsi del sipario e il magico comparire sul palcoscenico di una realtà altra…
Tanti gli stimoli, le provocazioni seminate dalla lettura del fondatore del Teatro delle Albe, discusse nel corso del pranzo sul prato antistante il teatro e riprese anche durante il Walkabout – vale a dire la passeggiata – condotta da Carlo Infante, accompagnato da Stefano Pasquini e dal vero nume tutelare dell’intera giornata, il “grande vecchio” Giuliano Scabia. Meta dei camminatori il “tetto del mondo”, luogo caro alla compagnia e spazio da Infinito leopardiano, capace di suscitare serenità immensa e frastornante vertigine.
Il “tetto del mondo” è stato il testimone dei venticinque anni di matrimonio di Stefano e Paola e proprio all’amore è dedicato l’appuntamento successivo della giornata: la proiezione di un lungometraggio, diretto dallo stesso Pasquini e Stefano Massari, che documenta il laboratorio condotto dalla compagnia con i giovani di Valsamoggia. Il titolo, Parliamo d’amore?, chiarisce immediatamente la questione al centro del lavoro, suggerendo anche l’impossibilità di una definizione univoca… E di amore – quello per il proprio lavoro che è anche scelta di vita – si parla ancora durante la presentazione del volume – curato da Massimo Marino e appena pubblicato da Titivillus – dedicato all’esperienza della compagnia – Teatro delle Ariette, La vita attorno a un tavolo.
E in questa occasione, l’intervento di Paola, che sintetizza il senso di questa intensa giornata: l’attrice-“contadina” racconta della visita del vicino, proprietario dell’allevamento antistante, che per la prima volta è andato da loro perché ora ha capito finalmente che cosa fanno, un “teatro”. Forse non tornerà più, ma è felice che proprio lì, accanto a lui, ci sia un teatro. Sì, perché, come ribadito da Francis Pedruzzi, schivo direttore di Le Channel Scène Nationale de Calais, di cui le Ariette sono stati spesso ospiti, il teatro si rivolge non al pubblico, ma alla “popolazione”. Un luogo necessario, che definisce e completa una intera comunità. Anche quella di un carcere di alta sicurezza, come ci ha ricordato Armando Punzo nell’ultimo appuntamento della giornata, Come se il mondo dovesse cominciare solo ora. L’utopia comune: un’utopia che, pur con sacrifici e quotidiana fatica, la compagnia delle Ariette è riuscita a tramutare in vitale realtà.