LUIGI SHIPANI | Una delle tematiche che più ha coinvolto di recente la platea milanese è quella legata alla sfera religiosa. A distanza di pochi giorni due teatri della città, il Menotti con lo spettacolo Prometeoedio (regia di E. Conte) e il Filodrammatici con Abramo (regia di T. Ludovico), hanno ospitato compagnie che hanno lavorato proprio su questo argomento.
Sia la pièce di E. Conte sia quella di T. Ludovico portano in scena una riflessione sul potere divino e lo problematizzano in rapporto all’Uomo. In entrambi i lavori, la divinità viene rappresentata negativamente, dominata dall’ira, dall’invidia e dalla paura di perdere il proprio potere.
Mentre in Prometeoedio gli dei sono veri e propri personaggi del dramma, dalle sembianze umane, quasi a significare che, nei fatti, costoro esistono, e sono mossi dalle stesse passioni delle loro creature (rabbia, paura di perdere il potere, invidia, desiderio di supremazia e di riconoscimento della propria autorevolezza), in Abramo Dio è solamente evocato dalle parole dei personaggi e la sua assenza dalla scena sembra quasi canzonare implicitamente la sua esistenza o, comunque, la sua credibilità.
Al potere religioso si contrappone da una parte l’irriverente Prometeo, che mette in discussione i suoi ordini e la sfida, affrontandola in uno scontro diretto e cercando di esporre il proprio punto di vista e le criticità dei divieti, dall’altra Abramo, dipinto come una marionetta che asseconda in toto i voleri supremi e che agisce, senza riflettere, nel nome della fede. Sulla scena, dunque, in maniera esplicita nello spettacolo di T. Ludovico, solamente accennata in quello di E. Conte, si fa largo una riflessione sul rapporto tra fede e libero arbitrio e sul labile confine che intercorre tra ciò che è religione e ciò che è violenza giustificata dalla fede. Nelle due opere viene evidenziata la possibilità di mettere in discussione i divieti imposti dalla divinità, qualora essi risultino una forma di abuso di potere più che un beneficio per i credenti.
In Abramo la rappresentazione di Sara (T. Ludovico) e di suo marito (A. Masiello) ricalca quella tramandata dalle Sacre Scritture: due uomini, che in tarda età hanno ricevuto da Dio un dono, Isacco (D. Indiveri). Quest’ultimo, tratteggiato come un giovane di indole un po’ nervosa e scattante, alla ricerca continua di responsabilità, vive “sotto una campana di vetro”, protetto e oppresso dalle cure dei suoi genitori. L’idea di imprigionamento è suggerita persino dalla scenografia, composta da soffocanti persiane bianche che delimitano e racchiudono lo spazio domestico, e dall’utilizzo di luci molto fredde (opera di Vincent Longuemare).
A sconvolgere il precario equilibrio familiare ci pensano alcuni viandanti sconosciuti venuti da lontano (G. Paolocà e M. Altamura), che irrompono buffamente sulla scena canticchiando canzoni folkloristiche e suscitando ilarità negli spettatori. I due personaggi sono così tratteggiati fin da subito in maniera caricaturale: una spassosa rilettura della coppia del Gatto e la Volpe, che mette da subito in allerta lo spettatore sulla credibilità dei loro enunciati. Costoro si presentano ai proprietari di casa come portatori della parola del Signore e confidano ad Abramo che Dio richiede l’immolazione di suo figlio. Dopo poche, ma non troppe esitazioni, il padre accetta di assecondare la presunta volontà di Dio e il giorno successivo parte con Isacco verso il monte Moira per compiere il sacrificio. Nessun dubbio sulla veridicità delle parole degli sconosciuti e sulla sensatezza della richiesta del Signore assale la mente di Abramo, che si erge in maniera grottesca a paladino della volontà del suo dio. A differenza delle Sacre Scritture, però, l’uccisione del figlio sembra compiersi. Il padrone della casa ritorna così alla sua dimora e riferisce alla moglie l’accaduto, difendendo la propria ragione.
L’immolazione del figlio è la matassa da cui si dipanano numerose riflessioni in relazione alla fede e alla religione. Sara, sconvolta e fuori di senno, viene tacciata dal marito di infedeltà, solo perché si permette di mettere in discussione le parole dei loschi viandanti, a cui incondizionatamente il marito aveva creduto. In un secondo momento, proprio costoro rientrano in scena e uno dei due svela al padrone di casa l’inganno: “Altre persone si presenteranno in nome di Dio e chiederanno massacri, torture, sventramenti e decapitazioni. (…) Non si può fare la volontà del Signore muovendosi come sonnambuli, evitando di pensare”.
La breve sentenza smaschera così l’ottusa fede che animava il cuore di Abramo e denuncia, al contempo, le numerose violenze che ogni giorno vengono fatte in nome della religione. Qual è quel dio che vorrebbe vedere immolate le proprie creature nel suo nome? Quali sono le ragioni? Fino a che punto può essere giustificato lo spargimento di sangue umano? Le questioni sollevate rimangono sospese e irrisolte, perché sulla scena le varie voci non comunicano tra di loro, non dibattono, proprio come accade ai nostri giorni, ma si limitano a gridare separatamente e con convinzione le proprie ragioni. Lo spettatore così viene immediatamente riportato alla realtà: la finzione si sovrappone ai fatti di cronaca, che quotidianamente ci vengono trasmessi dai media.
Dal punto di vista drammaturgico è apprezzabile in Abramo il modo con cui il tema è affrontato, con uno stile capace di muoversi fra stilemi classici e tratti più vicini al moderno “dramma borghese”. L’attenta definizione della psicologia e dei diversi punti di vista dei personaggi ha offerto al pubblico elementi per avviare una riflessione intorno ai divieti e ai comandi imposti dalla divinità. Forse atei o non praticanti sono più preparati ad affrontare in maniera critica queste tematiche; rimane viva, invece, la curiosità di conoscere la reazione che avrebbe potuto avere la visione su ferventi credenti, ora che il prototipo del combattente religioso ci sta abituando a considerare chi vivere al fronte nel nome del proprio Dio.
ABRAMO
di Ermanno Bencivenga
adattamento e regia Teresa Ludovico
con Augusto Masiello, Teresa Ludovico, Christian Di Domenico, Michele Altamura, Gabriele Paolocá, Domenico Inveri
spazio scenico e luci Vincent Longuemare
costumi Cristina Bari e Teresa Ludovico
PROMETEOEDIO
di Emanuele Conte da Eschilo
regia Emanuele Conte
costumi Daniela De Blasio
luci Tiziano Scali e Matteo Selis
assistente alla regia Alessio Aronne
con Gianmaria Martini Prometeo
Alessia Pellegrino Bia (Violenza) e Io
Enrico Campanati Ermes
Roberto Serpi Efesto e Coro delle Oceanine
Pietro Fabbri Cratos (Potere) e Oceano
capo macchinista Marco Lubrano
macchinisti Carlo Garrone e Fabrizio Camba
attrezzista Renza Tarantino
realizzazione costumi Umberta Burroni e Paola Ratto
direzione tecnica Roberto d’Aversa
Acting coach Paolo Antonio Simioni