LUIGI SCHIPANI | Macbeth è una delle tragedie più conosciute di Shakespeare, emblematica del tema, fra gli altri, della brama di potere: le riletture del dramma scozzese, osservato da diverse angolazioni, a teatro e sul grande schermo, sono uncountable.
Macbeth. Essere (e) tempo di G. Guidotti ed E. Sangiovanni nasce proprio dalla volontà di indagare l’essere umano e quelle pulsioni che lo spingono a dominare e a distruggere gli altri esseri viventi attraverso l’opera del Bardo. Il tema è caro alla compagnia Archivio Zeta, che già in passato l’aveva affrontato con lo studio di figure desunte dal repertorio tragico greco (Edipo e Oreste) e che per la prima volta sente la necessità di confrontarsi con un’ opera di Shakespeare; da qui la scelta di portare in scena il dramma scozzese, che, oltre ad avere attinenza con l’argomento trattato nei precedenti lavori, offre l’occasione di trattare un’altra tematica: il rapporto fra Uomo, Morale e Tempo. Come quasi sempre occorso nella loro pratica, quest’opera ha avuto il suo debutto all’interno della cornice architettonica all’aperto del Cimitero Germanico alla Futa. La nostra riflessione si riferisce invece al suo adattamento per lo spazio scenico, ospitata a Milano presso il Teatro Sala Fontana in alcune date di inizio Aprile.
Motore dell’azione è, nell’allestimento, la ricerca della conoscenza attraverso il male e le sue conseguenze, prassi estranea all’ordine precostituito e che, di conseguenza, incute euforia ma anche timore e angoscia in chi la compie. Il tema della conoscenza / vaticinio si declina così anche in quella della possibilità, dell’uomo in potenza, che si muove entro uno spazio sconosciuto, in un tempo liberato dalle certezze. Cosa siamo al di là della profezia? Quanto siamo artefici del nostro destino?
A dominare la scena iniziale è un tempo buio, che inquieta. Dal retroscena il suono di fiati e di percussioni eseguiti dal vivo non fa altro che rimarcare un’atmosfera allarmante e poco definita. L’indeterminatezza è ribadita dalla totale assenza di riferimenti spaziali: un lettore di Shakespeare sa bene che l’incontro di Macbeth con le Sorelle Fatali, che dà il via alla vicenda, avviene all’esterno, ma in questa rilettura scenica, forse per contrasto con l’allestimento all’aperto, volutamente non si inseriscono coordinate spaziali.
Protagonista dell’opera è il Tempo, declinato in maniera esasperata in tutti i suoi aspetti. Gli interpreti si spostano sulla scena con movimenti ampi e lenti e comunicano tra di loro in maniera solenne e antinaturalistica; quando sono presenti tutti insieme sulla scena si spostano in modo antiorario; il loro modo di parlare è volutamente esageratamente scandito, cantilenato e pare voglia offrire allo spettatore un’occasione per fermare il tempo, le lancette, oggetto scenico assai presente, per fermarsi a riflettere. Ne consegue un tempo scenico dilatato e inusuale, che può correre il rischio di spiazzare l’attenzione dello spettatore del nostro teatro, abituato invece a ritmo, scansione. Il riferimento a questo processo di simboli, movimento nello spazio, oltre che al lavoro sulla vocalità, riguarda in maniera estensiva tutta la compagine attorale coinvolta nell’allestimento.
Anche gli oggetti scenici comunicano tutti l’impressione di essere studiati in ogni dettaglio, di essere densi di significati e di allusioni, più o meno comprensibili al pubblico; basti pensare all’enorme telaio circolare che sorregge una tela bianca e rossa, che funge da attributo di Lady Macbeth, durante la recita del famoso monologo in cui escogita un piano per uccidere il re e assicurare il potere al marito.
Il momento in cui lo espone si carica di un alto valore simbolico: la futura regina, dando le spalle al pubblico, quasi a rimarcare l’intimità della circostanza, osserva pensierosa alcuni fili rossi (significativo il colore, che allude anche al sangue che sarà versato), fili che pendono dal centro della tela, ricordando quasi una delle tessiture di Maria Lai. Li tocca, li aggiusta e li sistema: la trama del suo progetto omicida sta prendendo lentamente forma nei pensieri della donna ed è visivamente percepibile, quando immerge la testa nel foro al centro della stoffa, quasi fosse una freccia diretta al bersaglio. Successivamente, il panno verrà staccato dal cerchio portante (ingombrante e scomodo come il suo progetto), e verrà indossato come una mantella, simbolo del potere regale.
Leggendo il foglio di sala, si scopre che il disegno e la forma della tela richiamano il piano di volo ed esecuzione dello sgancio della bomba atomica su Hiroshima nel corso della seconda guerra mondiale: anche quello un progetto volto alla conquista del potere. Ma è forse nel secondo livello di citazioni che l’allestimento rischia di ammantarsi di una patina che può creare distanza, e apparire erudita o autoreferenziale: una difficoltà nella comprensione indotta probabilmente dal gran numero di riferimenti, non tutti prontamente intuibili o comprensibili, proposti con un andamento ritmico a cui non siamo più abituati; una sfida, questa, che ci ha lasciato una sensazione simile a quando capita di assistere alla proiezione di vecchi film in bianco e nero.
Opera impegnata e impegnativa, il Macbeth di Archivio Zeta riesce comunque a raggiungere l’intento di portare il pubblico a riflettere sul nostro tempo e sui ritmi che quotidianamente cerchiamo di sostenere, affannandoci nelle sfide e sui dilemmi morali riguardo l’essere artefici del proprio destino.
MACBETH essere (e) tempo
di William Shakespeare
regia Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni
con Stefano Braschi, Gianluca Guidotti, Ciro Masella, Giuditta Mingucci, Enrica Sangiovanni
partitura sonora Patrizio Barontini
tecnica Andrea Sangiovanni
coordinamento organizzativo Luisa Costa
cura Rossella Menna
produzione Archivio Zeta e Elsinor
Spettacolo visto al Teatro Sala Fontana di Milano in data 07/04/2017