VecchiPerNiente Agostino Tazzini, Benedetta Barzini, Teresa Piergentili, Guido Tonetti_ph.fabio artese

LAURA NOVELLI | Mi ritrovo a pensare al rapporto tra vecchiaia e teatro e il primo testo che mi viene in mente è King Lear di Shakespeare. Un re che, ormai anziano, decide di dividere il suo regno assegnandolo con equità alle sue tre figlie e che sarà deluso, ferito, abbandonato. Lear credo esemplifichi bene – e con lui il suo “doppio” rappresentato dall’altrettanto anziano conte di Gloucester – quella resa al passato (chiamiamola memoria, nostalgia, vita) che è sentire comune nelle persone di una certa età e che, però, in esse si accompagna quasi sempre con il desiderio di guardare al futuro, al nuovo, al domani. La tragedia segue il suo corso e finisce come ben sappiamo. Ma, al di là dei fatti, Shakespeare ci regala un complesso teatro/mondo dentro cui si annida il senso di ogni esistenza umana e, tanto più, la ricerca di una continuità che sappia di infinito, di dialogo generazionale, di rapporto ”vivo” con ciò che siamo stati e che altri, dopo di noi, ci faranno essere.

Mi ritrovo a pensare al grande dramma del Bardo mentre assisto, al teatro Vascello di Roma, al bel lavoro Vecchi per niente che Nicola Russo, interessante autore e regista quarantaduenne fattosi notare nel 2010 con Elettra, biografia di una persona comune, dedicato alla soubrette Elettra Romani e premiato al NapoliFringeFestival, ha tratto dal saggio La forza del carattere di James Hillman, trasformando la vecchiaia in un solido pretesto per parlare di “altro” e rovesciando i consueti cliché del caso.

Qui siamo, infatti, nel perimetro di un “cabaret delle emozioni” in cui si azzera ogni linea del tempo (con echi che arrivano da Ibsen e Pinter) e in cui quattro attori-non attori interpretano se stessi (sono i bravissimi Benedetta Barzini, Teresa Piergentili, Agostino Tazzini e Giudo Tonetti), rovistano nei loro ricordi con godibile (auto)ironia, “mentre” i protagonisti stessi di questa memoria biografica rivivono in scena nei corpi giovani di Sara Borsarelli e Marco Quaglia (anch’essi molto intensi ed efficaci).

Il palcoscenico è completamente spoglio ma rivestito di una pittura verde acido che rende brillante anche la parete di sfondo. L’incipit è lineare: quattro sedie, di quelle semplici, da cucina; quattro “vecchi” tra i settanta e gli ottanta anni che arrivano uno dopo l’altro e si abbandonano ad un certo dimesso “starci” a guardare, aspettando le nostre reazioni. Poi sopraggiungono le note di When I’m sixty-four  dei Beatles e quei piedi fermi accennano un passo di danza, le teste dondolano maliziosamente, le mani tengono il ritmo, i volti sorridono. Ad un certo punto però il tono cambia e i quattro performer camminano verso il proscenio facendo smorfie, prendendo posture storpie, barcollanti, malaticce. Sono la caricatura di se stessi. Sono ciò che stupidamente la parola vecchio evoca agli occhi della società. Scrive Hillman: “Il disprezzo per i valori generalmente associati alla vecchiaia diminuisce il valore stesso della persona anziana”. I nostri “vecchietti” per di più appaiono molto diversi nel fisico, nella prossemica, nella voce. Ma proprio nelle loro differenze così estreme sta il bandolo della matassa, perché Russo non intende parlarci tanto della terza età quanto di ciò che la terza età meglio mostra e dimostra: il carattere di ciascuno (cito ancora dallo psicanalista junghiano: “In un vecchio viso si rivela il carattere”). Il suo lavoro, già passato con successo a Milano per due stagioni, propone insomma una riflessione sull’identità, sull’immagine/percezione che diamo agli altri e a noi stessi di noi. E credo che la struttura aperta, quasi brechtiana, che l’autore vi imprime punti proprio a farci accettare il fatto che la vecchiaia non sia altro che “un noi un po’ più noi”.

La Barzini (celebre ex-top model e giornalista, ancora bellissima, eterea ed elegante) è lì con il suo carico di amori più o meno sinceri; Teresa Piergentili ispira simpatia e dolcezza, Tazzini e Tonetti sembrano dei saggi nonni/maestri d’altri tempi. Per tutti si avvicina il tempo dei ricordi: quella madre in tailleur blu, quel padre morto suicida, quell’amante così fuggevole e bambino. In un intreccio ben ritmato di piani temporali (tali da non escludere neppure il presagio della “fatal quiete”), i fantasmi del passato parlano con i vecchi di oggi. Ma il dialogo è chiaro, franco, senza fronzoli, costruito su una regia anch’essa fluida e naturale che fa leva su ottimi giochi di luce e pochi ma incisivi intarsi musicali. Nel flusso di memorie e di presagi funebri ritrovo qualcosa di Dondolo di Beckett (una vecchia sulla sedia che rievoca la sua nascita prematura cercando in fondo se stessa); qualcosa de L’Antologia di Spoon River. E la domanda che fa da filo rosso suona ancestrale:  “Ma tu, quando te ne sarai andato, che cosa vorresti che dicesse la gente di te?”.

Non è un caso, d’altronde che, alla fine, i quattro attori anziani raccontino direttamente al pubblico la loro storia personale (quella di uomini e donne come tanti) scandendola per tappe decennali. Fa capolino una luminosa verità in questo emozionante quadro conclusivo. Via la maschera, direbbe Pirandello. Disveliamo noi stessi e facciamolo a teatro. Laddove è possibile mostrare tutto e il contrario di tutto. Laddove, tanto meglio, è possibile mostrarci così come siamo: nudi, spogli, con i nostri settanta/ottanta anni, le nostre rughe, i nostri fallimenti, le nostra vittorie, le nostre gioie e le nostre tragedie. Sì, a teatro. Laddove, in definitiva, di tutto ciò è possibile pure ridere (o sorridere) insieme.

 

VECCHI PER NIENTE

testo e regia Nicola Russo

ispirato a La forza del carattere di James Hillman

con (ordine alfabetico)

Benedetta Barzini, Sara Borsarelli, Teresa Piergentili

Marco Quaglia, Agostino Tazzini, Guido Tonetti

scene e costumi Giovanni De Francesco

luci Cristian Zucaro

foto e grafica Liligutt Studio

organizzazione Isabella Saliceti

produzione Teatro Franco Parenti in collaborazione con Monstera

Roma – Teatro Vascello – 11/14 aprile – ore 21.00