Foto di Guido Mencari

MATTEO BRIGHENTI | Il teatro è antico come la parola. Thèa in greco è il “guardare” e fanno capo alla stessa radice di “ammirazione” e “meraviglia” sia lo spettatore che lo spettacolo.
Romeo Castellucci pone Democracy in America nel tempo, si legge nella scheda artistica, “che viene prima della Nascita del Teatro, in quell’attimo d’indeterminazione in cui i piedi nudi calpestano ancora le ceneri tiepide della Festa ormai abbandonata dagli Dei, ma non vedono ancora l’inizio della Tragedia, creata dall’Uomo”.
Un velatino e poi un altro per lunghi tratti, soprattutto nella parte centrale, tra il dialogo dei contadini puritani e quello dei nativi americani, sfocano, offuscano la scena della prima nazionale al Teatro Metastasio di Prato: i volumi sono incerti come un miraggio, i colori confusi come dentro una tempesta di polvere. S’intravede una donna nuda appesa per le mani, figure incappucciate le danzano intorno, cala la gamba meccanica di un cavallo e scalcia, sempre più forte è il rumore, forse, di carri, incendi, armi della Guerra d’Indipendenza o Civile.
Non si capisce cosa succede, anche se lo si sta guardando: la donna potrebbe essere l’America (la natura, il territorio, lo Stato) al centro di un sabba, una messa nera, un rito sfrenato di una qualche società segreta che sta fondando nel sangue gli Stati Uniti: violenza scandita dalla proiezione di date, accordi e battaglie. Fuor di metafora e poetica, Castellucci ha ragione: la nuova creazione della Societas, che insegue oltreoceano Alexis de Tocqueville, non si rende pienamente visibile agli spettatori né esteticamente ammirabile. Siamo a teatro allora, stando all’etimologia, solo per il fatto che lo spazio in cui ci troviamo porta questo nome?

Il regista (sue anche scene, luci, costumi) si è liberamente ispirato a La democrazia in America, uno dei grandi classici del pensiero liberale dell’Ottocento. Nato a Parigi nel 1805 da una famiglia aristocratica, i genitori incarcerati durante il Terrore e il padre prefetto sotto la Restaurazione, nel 1831 Tocqueville approdò nel Nuovo Mondo, dove scoprì una società in prepotente sviluppo, in continuo movimento, che nessuno aveva ancora descritto né compreso fino in fondo.
Nel 1835 uscì la prima parte del saggio, seguita nel 1840 dalla seconda. L’uguaglianza delle condizioni è il punto centrale delle osservazioni sociologiche, oltre che politiche, di Tocqueville. Si tratta di uguaglianza di opportunità, in una tendenza all’omogeneità del tenore di vita: i padri pellegrini condividevano la lingua, erano emigrati per scelta, decisi a conservare la propria libertà religiosa. Il puritanesimo era per loro religione e, insieme, teoria politica democratica.
La congiunzione tra interessi privati e pubblici si salda con la consapevolezza di essere artefici del proprio Paese e destino. Il rischio concreto, però, è un’elevata conformità alle decisioni della maggioranza, tanto da riaffermare un nuovo dispotismo, che Tocqueville chiama ‘tirannia della maggioranza’.

Proprio una muscolare parata militare apre lo spettacolo. Romeo Castellucci predilige formare compagnie ‘monosessuali’ per la speciale ‘energia’ che sprigionano e quindi sul palco ci sono diciotto danzatrici, sei stabili e dodici scelte tra le file del pratese The Loom – Movement Factory (tante ne vengono selezionate in ogni Paese per la tournée locale). Indossano divise bianche e sbattono dei campanacci, sono una schiera di marziali ‘ragazze pon-pon’ che scompongono e ricompongono le lettere di Democracy in America: cambiando ordine e disposizione delle bandiere che hanno in mano costruiscono un puzzle di anagrammi per un ‘popolo bue’ affetto da obesità, depressione, cinismo ed esportatore di democrazia a suon di bombe e dittatori corrotti. La musica di Scott Gibbons è una lama tagliente che penetra ed esalta i giochi di parole e più avanti le intermittenze, le associazioni sotterranee dei tableau.

Giulia Perelli @ Guido Mencari

Da tale ‘maggioranza rumorosa’ emerge la donna di cui già abbiamo parlato, il corpo nudo, coperto di sangue, avanza e colpisce con i lunghi capelli neri un trapezio calato sul palcoscenico. Siamo probabilmente tornati indietro allo sfruttamento degli schiavi, il lavoro ripetitivo, sempre uguale a se stesso, che passa anche per un canto registrato di prigionieri alla catena: nell’interiorizzazione della visione dei bianchi Tocqueville trova la causa dell’esito segregazionista della convivenza bianchi-neri.
Entra un fregio classico: è la porta, il sipario, il motore immobile del teatro tradizionale di lì a poco rappresentato. La ‘Puritan Foundation’ della democrazia americana prende vita con due contadini in una luce aurorale da quadro di Millet per ritrovare la semplicità e la purezza del mondo rurale. “La terra – ha spiegato Castellucci a L’Espresso – è la loro missione. Non una conquista fatta con le armi, ma con il lavoro più semplice. Essi vogliono contribuire a trasformare l’America nella nuova Terra Promessa. Si affidano a Dio, ma la vita durissima li metterà alla prova”.
I denti neri, le finte manone a significare la fatica nei campi, la coppia discetta sul nome di Dio, su come lo devono chiamare, usando una lingua libresca (i testi sono di Claudia Castellucci e Romeo Castellucci) e gesti fortemente stilizzati, da pantomima o teatro dei burattini: lei/la moglie dice la sua disperazione per il magro raccolto serrando i pugni lungo i fianchi e piegandosi in avanti, lei/il marito cerca autorità e rispetto stendendo la schiena e aprendo le braccia.
Si dipana un dialogo irrealistico e involontariamente comico, dove Dio non è un crocifisso, ma la stella polare, la rosa dei venti lassù in alto da bestemmiare fino alla blasfemia, fino al culmine del Padre stesso che, in un eccesso alla Esorcista di Friedkin, s’impossessa della moglie, si riprende ciò che ha creato, ciò che è suo, e le impone di pentirsi. La tonalità calda, ariosa del sogno americano si macchia del fallimento che contamina sul nascere la fondante radice puritana, baratro su un’oscurità vertiginosa rimarcato in precedenza con la parata anagrammatica, dopo con la danza insanguinata delle date storiche.

La comunità parla attraverso cartelli come nel cinema muto: la donna è anche una ladra e viene condannata a un processo pubblico che, supponiamo, si svolge all’interno della caotica parte centrale, quando tra un bimbo in fasce e un aratro sceglie quest’ultimo, diremmo il lavoro, l’individualismo. Qui Democracy in America diventa più criptico che mai: scende sull’infante una struttura a canne che si muove nell’aria accompagnata da suoni propri degli Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo di Spielberg. Il vero nome di Dio è una nota, un tono, un suono, una vibrazione che ha messo in moto e in ordine i componenti inerti dell’universo in vista della costruzione del Creato. La presenza spettrale del piccolo sembrerebbe richiamare l’episodio biblico del sacrificio di Isacco.

Foto di Guido Mencari

Girato a vista il fregio, non senza difficoltà, va in scena l’ultimo risvolto della democrazia in America, gli indiani. Tocqueville individua nel rifiuto all’adeguamento la motivazione che avrebbe portato allo sterminio dei nativi e ora uno insegna a un altro il dizionario dei conquistatori, l’inglese. Poi si svestono del costume e di una tuta in lattice, la pelle in cui gli invasori li hanno messi con i loro pregiudizi, e la danzatrice dai lunghi capelli neri li sbatte nuovamente sul trapezio.
Il cerchio si chiude e la Storia (ri)comincia dal ‘cuore di tenebra’ della fondazione dell’America, atto finale di un lavoro che non vuole essere né politico né riflessione sulla politica quanto, semmai, una sua conclusione.
“Aprire uno squarcio – avvertiva Romeo Castellucci a La Repubblica Firenze – lasciare passare qualcosa che esisteva già, per poi andarsene. Guai a chi dà lezioni: la parte oscura che ci sfugge è quella più ricca”. In questa prospettiva, Democracy in America è per noi una miniera d’oro d’incomprensibilità: storia e fenomenologia della democrazia a stelle e strisce si aggrovigliano a una deriva di immagini che ritorcono lo spettacolo contro se stesso, accumulando elementi e simboli fino al punto in cui il senso e il significato si perdono del tutto.

DEMOCRACY IN AMERICA
liberamente ispirato all’opera di Alexis de Tocqueville
regia, scene, luci, costumi di Romeo Castellucci
testi di Claudia Castellucci e Romeo Castellucci
musica Scott Gibbons
con Olivia Corsini, Giulia Perelli, Gloria Dorliguzzo, Evelin Facchini, Stefania Tansini, Sophia Danae Vorvila
e con Irene Bini, Sara Bolici, Mariagiulia Da Riva, Laura Ghelli, Virginia Gradi, Giuditta Macaluso, Sara Manzan, Sara Nesti, Cristina Poli, Elisa Romagnani, Irene Saccenti, Fabiola Zecovin
coreografie liberamente ispirate alle tradizioni folkloriche di Albania, Grecia, Botswana, Inghilterra, Ungheria, Sardegna
con interventi coreografici di Evelin Facchini, Gloria Dorliguzzo, Stefania Tansini, Sophia Danae Vorvila
assistente alla regia Maria Vittoria Bellingeri
maître répétiteur Evelin Facchini
sculture di scena, prosthesis e automazioni Istvan Zimmermann e Giovanna Amoroso
realizzazione costumi Grazia Bagnaresi
calzature Collectif d’Anvers
direzione di scena Pierantonio Bragagnolo
tecnici di palco Andrei Benchea, Giuliana Rienzi
datore luci Giacomo Gorini
tecnico del suono Paolo Cillerai
costumista Elisabetta Rizzo
fotografo di scena Guido Mencari
produzione esecutiva Societas
in coproduzione con deSingel International Artcampus; Wiener Festwochen; Festival Printemps des Comédiens à Montpellier; National Taichung Theatre in Taichung, Taiwan; Holland Festival Amsterdam; Schaubühne-Berlin; MC93 Maison de la Culture de Seine-Saint-Denis à Bobigny con Festival d’Automne à Paris; Le Manège – Scène nationale de Maubeuge; Teatro Arriaga Antzokia de Bilbao; São Luiz Teatro Municipal, Lisbon; Peak Performances Montclair State University (NJ-USA) con la partecipazione di Théâtre de Vidy-Lausanne e Athens and Epidaurus Festival
L’attività di Societas è sostenuta da Ministero dei beni e attività culturali, Regione Emilia-Romagna e Comune di Cesena
Visto giovedì 27 aprile 2017, Teatro Metastasio, Prato. Le prossime date in Italia sono l’11 e 12 maggio 2017 all’Arena del Sole di Bologna e il 16 maggio 2017 al Teatro Sociale di Trento.

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