ROBERTA ORLANDO | Per una riflessione su questo lavoro della compagnia al femminile Maledirezioni, diretto da Carlotta Origoni, in scena al Teatro Linguaggicreativi fino al 21 maggio, partirò dalla fine, ossia dalla sensazione che ha saputo lasciare, traendo ispirazione dalla simile scelta narrativa della regista. Uscita dal teatro, mi sentivo come dopo una cena in un ristorante gourmet, soddisfatta dai sapori e dalla qualità degli ingredienti, ma con ancora un po’ di appetito. Portate non troppo abbondanti, per restare nella metafora, per lo più degli assaggi che non saziano completamente, ma che restano impressi.
Due attrici in un appartamento, alle prese con le difficoltà di mettere in scena un testo teatrale sugli “anni di piombo” in Italia. Ma come si fa a orientarsi in quel turbine di avvenimenti e tra tutti i personaggi che hanno fatto la storia degli anni ’70 e ’80? In fondo sono solo in due, Marta (Martina De Santis) e Silvia (Sara Urban), a dover fare i conti con una drammaturgia apparentemente troppo ricca e intricata. Le protagoniste sono due sorelle, Anna e Lea, entrambe coinvolte attivamente nelle rivolte studentesche del ’68 e nelle rivendicazioni femministe. Ma in seguito alla strage di Piazza Fontana del ’69, le loro strade di dividono: la prima sceglie la via più radicale unendosi alle Brigate Rosse, che la condurrà alla clandestinità e infine alla prigionia. L’altra rifiuta la lotta armata e adotta le logiche più democratiche del Partito Comunista di Berlinguer. Una trama che ci rimanda subito alla Germania di Margarethe von Trotta e ai suoi Anni di Piombo, un film del 1981 di cui questo spettacolo voleva essere un adattamento, nella sua prima versione scritta nel 2015 intitolata infatti “Piombo”. Poi, la scelta di circoscrivere il contesto geografico all’Italia e spaziare piuttosto sul piano tematico, andando oltre gli anni di piombo (come suggerisce il sottotitolo) ad osservare il presente e il punto di vista possibile di chi è cresciuto nella nebbia lasciata dalle turbolenze di quegli anni.
Si svolge così il percorso a ritroso tra i punti salienti della storia politica italiana a partire dal 1984, anno del Congresso del Partito Socialista a Verona noto per i fischi a Berlinguer (che morì il mese dopo). Si passa al 1978 con il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro e poi al ’77, quando la studentessa Giorgiana Masi rimase uccisa in uno scontro armato tra Radicali e forze dell’ordine a Roma. Vengono citati inoltre la legge del 1975 per l’istituzione dei consultori pubblici, i movimenti a favore del diritto all’aborto, ma anche l’opposizione di Pasolini con la sua lettera pubblicata sul Corriere della Sera, nonché il referendum sul divorzio (1974). Non mancano cenni alla politica internazionale, dal colpo di stato di Pinochet in Cile (1973) all’omicidio di Martin Luther King e di Bob Kennedy fino al massacro di Tlateloco, in Messico, tutti avvenuti nel ’68.
Insomma, tanti argomenti da trattare, ma la domanda che intercorre resta la stessa: come mettere in scena tutto questo in maniera efficace?
Già dal prologo, lo scambio di idee tra Marta e Silvia sul possibile montaggio scenico si fa motivo di tensione e motore del gioco metateatrale che ci viene proposto. Le letture da alcuni dei libri che riempiono il proscenio o la ricerca di qualche video su Youtube dal tablet, di cui ci giunge l’audio, sono occasioni di approfondimento sia per le attrici che per il pubblico, che assiste alle fasi di queste “prove aperte” e alle relative incertezze, alimentate dagli interventi telefonici o scritti della fantomatica regista, Giorgia.
Quando poi le attrici sembrano trovare un punto di svolta, si fa un salto indietro nel tempo, solitamente in vesti più vintage, a esplorare direttamente uno di quegli anni, ma anche il difficile rapporto di due sorelle divise dalla vita politica. I dialoghi in questo contesto sono volutamente più calcati e il risultato è leggero nella sua ironia. Le scene vengono puntualmente interrotte poiché non convincenti; si crea in tal modo un costante ma agile passaggio tra diversi piani temporali, che lascia spazio all’improvvisazione.
Forse il lavoro di Maledirezioni, che si avvale di un’interessante idea di partenza e di due ottime attrici, non si può dire concluso e potrebbe richiedere ulteriori modifiche e sperimentazioni, ipoteticamente in una direzione di ampliamento delle scene ambientate negli Anni di Piombo, a scapito dei dibattiti sulla messa in scena, che a tratti si fanno un po’ ridondanti.
Tuttavia l’effetto, persistente anche nei giorni successivi alla visione di Uscirne Vive, è stato l’incitamento ad una profonda curiosità e ad un interesse a scavare nella storia di quegli anni, per risolvere le domande in sospeso. E non è forse questo un presupposto del teatro?