ELENA SCOLARI | Primo: contestualizzare. Il nome della compagnia: Opera retablO nasce in Svizzera, nel Canton Ticino, ma si dà un nome spagnolo. Il retablo è la pala d’altare, siamo quindi in un’area semantica che abbraccia l’arte, l’estetica e la figuratività, nei propri lavori. E anche la religione non è estranea a questo campo, “Köszeg” inizia infatti in modo strettamente rituale con una vestizione dell’attore Daniele Bernardi a opera dell’attrice/chierichetto Ledwina Costantini.
Köszeg è una piccola cittadina in Ungheria, ungherese (naturalizzata svizzera) era Ágota Kristóf (1935-2011), la scrittrice autrice de La trilogia della città di K., il cui titolo originale è La trilogie des jumeaux  ossia La trilogia dei gemelli.
Köszeg è stato ospitato da Zona K a Milano (non allarmi l’abbondanza di lettere K, è kasuale), centro culturale nel quartiere Isola, vincitore del Premio Rete Critica 2016 per il miglior progetto organizzativo, ha portato in Italia alcuni tra i più interessanti progetti teatrali stranieri degli ultimi tempi (dai berlinesi Rimini Protokoll ai catalani Agrupaciòn Señor Serrano).

Ora che abbiamo delineato alcuni confini possiamo addentrarci nel bosco dello spettacolo/performance, ispirato al testo sopra citato: gli spettatori sono distribuiti in piedi nello spazio scenico, al centro sta un tavolo di metallo e tubi innocenti sul quale giace uno degli attori, coperto da un telo di plastica nera, intorno palazzi di cartone con le finestre disegnate a pennarello, candele, un quadrato di sabbia.

Il romanzo della Kristòf è composto di tre parti, qui ci si concentra su alcuni elementi della prima – Il grande quaderno – nella quale due gemelli raccontano la loro infanzia nell’immaginaria città di K., in tempo di guerra, la seconda. Un’infanzia tremenda, va detto, non succede niente di buono, ma proprio niente, mai.
La madre dei bambini è costretta a lasciarli alla nonna, una megera dall’aspetto di strega che li maltratta e sevizia con perfida fantasia e abita in una casa al fondo della città, al limitare della foresta. Queste informazioni le apprendiamo dall’unica voce dello spettacolo, una voce registrata, di ragazzina, senza intonazione, asettica. Così come si forzeranno a crescere i due gemelli: senza inclinazioni, stoici, insensibili agli insulti, impenetrabili al dolore, i bambini faranno della sopportazione un esercizio: si gridano addosso improperi per imparare a non avere più reazioni, si fustigano coi rami per reggere la sofferenza, intraprendono pratiche di digiuno… amenità di fanciulli ungheresi. Ma non c’è pietismo, non c’è retorica, allestimento e regia seguono per gli spettatori l’intento che l’autrice ha verso i lettori: educarli a non commuoversi, insegnargli ad assistere alle peggio brutalità senza scomporsi, attenendosi a ricordare solo i fatti. I personaggi proseguono nella vita col criterio di ciò che è utile – perlopiù alla sopravvivenza – trascurando sentimentalismi e disamine etiche di qualunque sorta.

D. Bernardi e L. Costantini si muovono con gesti precisi, netti, entrambi hanno padronanza dello spazio e del movimento, anche se queste qualità si perdono un po’, così come il carattere rituale e rigoroso della prima parte del lavoro, man mano che ci si inoltra nei momenti più densi. Ė bella la distruzione della città  realizzata accartocciando i palazzi ci cartone caricati e portati via su una carriola. Ė bello anche lo spargimento di terra e rifiuti, in quei mucchi i gemelli cercando qualcosa di sano e trovano un lecca lecca, unico simbolo colorato di un’età bambina.

Il grande quaderno del romanzo è lì, sul tavolo, e gli attori ci disegnano qualcosa con gessetti neri, per poi annerire del tutto le pagine, non c’è luce, non c’è colore. Ma la coppia di bambini non sembra senza speranza, è agguerrita, rabbiosa, energica nell’inscenare i combattimenti con i soldatini di plastica, stragi in miniatura, come una MiniUngheria del secondo conflitto mondiale.
La riduzione di Kristòf pensata da Opera retablO mette l’accento sulla complementarietà conflittuale dei due ragazzi, sulla durezza, sull’ambiguità di due vite che si specchiano l’una nell’altra, infatti la fine dello spettacolo vede la deposizione dell’attrice sullo stesso tavolo, sotto lo stesso telo nero che copriva il fratello.

La sgradevolezza della situazione è evidente, dal punto di vista tecnico si nota l’unione riuscita di luci, musiche e scrittura scenica. Molto dell’atmosfera è dato però dal luogo dove si tiene lo spettacolo e il salone di Zona K è forse fin troppo “caldo” per rendere la desolazione della città devastata, immiserita, incattivita.
Quello che invece manca internamente al lavoro è una maggior cura dell’andamento di accelerazioni e decelerazioni nel respiro dello spettacolo e una chiusura meno affrettata.
Ah! un’intuizione sulla G rossa dipinta a spray sulla parete: sta per gemelli. Gemelli inseparabili e che quando si separano finiscono poi per ritrovarsi e confondersi a vicenda sulla reciproca esistenza.
Un incubo scuro e oscuro, dal quale si esce con la netta sensazione di essere molto fortunati.

 

regia Ledwina Costantini
di e con Ledwina Costantini e Daniele Bernardi
costumi Caterina Foletti
scenografia Opera retablO e Michele Tognetti
produzione Opera retablO
in coproduzione con Teatro Sociale Bellinzona
con il sostegno Swisslos/ Pro Helvetia / Tognetti- auto/ Carthesio SA