MATTEO BRIGHENTI | Quando il suono si fa corpo la danza diventa concerto. Partitura coreutica e compositiva dialogano continuamente, sono confini coincidenti, parole concordi del medesimo discorso scenico.
Giselda Ranieri a Trasparenze 5 di Modena, Roberta Racis e la compagnia Rosas in prima nazionale a Fabbrica Europa XXIV di Firenze, non hanno ballato con la musica, hanno ballato la musica: hanno accolto, tradotto, trasformato le note in movimenti, quasi che la melodia fosse una successione di braccia, gambe e pure smorfie, invece che di Do, Re, Mi.
Tecnica corporea, significato musicale, stile del brano, vanno di pari passo, questi danzatori si ‘suonano’ nell’incontro tra il ritmo e lo spazio.
Giselda Ranieri si è esibita in Blind Date e i…i…io?!/Give me a moment prodotto da Aldes/Roberto Castello.
Blind Date è un passo a due con la batteria live di Igino Luigi Caselgrandi davanti alla Stazione Ferroviaria modenese, un intervento site specific che ha contribuito a portare il Festival di Stefano Tè e del Teatro dei Venti fuori dal seminato della categoria, della definizione, del prevedibile, stando dalla parte, in senso letterale, del pubblico e della città (ne abbiamo parlato qui).
L’Incontro al buio (danzatrice e musicista si sono conosciuti il giorno prima) di un corpo che aspetta di essere suonato dalla vibrazione giusta con i…i…io?!, selezionato dalla Konsula con la Chiamata per Spazi Urbani, diventa inadeguatezza, indecisione e frustrazione di non saper se andare o restare, cominciare o finire. È l’espressione destrutturata della fatica di non avere un attimo in più, per sé e per gli altri.
La musica dal vivo è ancora quella di un batterista, Elia Moretti, e il palcoscenico è di nuovo all’aperto. Ranieri sembra una ragazza come tante che si guarda allo specchio, non si piace e, nonostante le provi tutte, continua a non piacersi. Faccia al pubblico, muove gli occhi, fa i versi, le boccacce, ha una mimica tra il fotoromanzo e il cartone animato. Una vera furia di divertimento. La sua danza è una linea spezzata che la attraversa da parte a parte, è robotica, espressionista, mentre la batteria si distorce nella carica del rullante, negli stridii di una bacchetta o un archetto sui bordi dei piatti.
Quando arrivano le parole, “poi è anche vero che…”, “bisognerebbe solo provarci un po’ di più…”, compongono frasi spezzate e sospese al pari dei gesti: la balbuzie del definirsi in maniera univoca e unitaria (nel titolo e nel modo di esprimersi in scena) è il risveglio di una marionetta tirata e contesa dalla pluralità dell’esterno, la famiglia, il lavoro, la società.
Sono ‘frammenti di un discorso amoroso’ della generazione nata negli anni ’80, che chiede solo un minuto, un soffio di fiato, un attimo ancora. Giselda Ranieri ‘rappa’ a cappella Un attimo ancora dei Gemelli DiVersi (cover dei Pooh) e pare un disco che salta, un marchingegno a transistor inceppato, ritagliandosi margini d’improvvisazione da Commedia dell’Arte contemporanea.
i…i…io?! è il diario che Bridget Jones avrebbe scritto se fosse stata alla sbarra, invece che sul divano davanti alla televisione. “Perché bisogna faticare?” Per vivere e non lasciarsi vivere risponde Giselda Ranieri nell’ultimo attimo che si dà ancora.
Dopo l’avvio nel 2016 del format DAN+Z (da Dance+Jazz), che ha visto protagonisti Gianluca Petrella e Luisa Cortesi, Daniele Ninarello e Dan Kinzelman, Simone Graziano e Vittoria De Ferrari Sapetto, Fabbrica Europa ha ospitato quest’anno BORDERS, la produzione che Novara Jazz ha creato insieme a Roberta Racis, coreografa e danzatrice del Balletto di Roma, il chitarrista Francesco Diodati e il batterista Ermanno Baron.
Siamo di fronte a un corpo a corpo di sfrontatezza post-rock con la musica, una lotta di forme, una conquista di spazi, uno scontro a chi arriva primo, se i passi, la chitarra o la batteria. Racis è un’anima di donna messa a nudo nella sua ricerca di verticalità e quindi autonomia.
Comincia a terra, al centro, nell’occhio di una luce indagatrice, con Diodati a destra e Baron a sinistra. Il contatto con gli strumenti è una percussione dei bordi, la tastiera della chitarra, ancora i piatti della batteria, mentre la danza è il riverbero circolare di contorsioni animalesche.
Sembra voglia uscire da sé, rotea, solleva il busto, inarca la schiena, si tira i lunghissimi capelli neri, le note si contorcono e lei quasi dissocia gli arti, spezzetta le giunture, rende le articolazioni indipendenti e comunque intonate alla sua resistenza. Come in i…i…io?! le sollecitazioni sonore agitano la ‘lunga mano’ dell’esterno che muove, dirige e in fondo condiziona l’interiorità della danzatrice.
La stabilità sulle gambe è ancora gracile quando la musica acquista intensità: è allora che Roberta Racis si alza puntellandosi sui piedi. Questa scossa di vita, sfuggita, chissà perché, al controllo di un qualche destino, le dà la forza di prendersi il suo spazio, tutto quello di cui ha bisogno. Viene avanti, indietreggia, finalmente ariosa, leggera.
L’ambiente suona violento per tentare di recuperare il controllo perduto, ma ormai anche gli stessi musicisti paiono danzare sinuosi.
A Love Supreme è la prova provata, chiara, pura, assoluta, della riflessione fatta fino a qui. Nella coreografia che Anne Teresa De Keersmaeker, Leone d’oro alla carriera 2015, e Salva Sanchis hanno costruito sull’omonimo album di John Coltrane per i 50 anni dalla sua scomparsa, ogni danzatore incarna uno strumento e pertanto un suono, una linea melodica, un colore, un timbro preciso. Thomas Vantuycom è il sax tenore di Coltrane, Bilal El Had il piano di McCoy Tyner, Jason Respilieux il contrabbasso di Jimmy Garrison, José Paulo dos Santos la batteria di Elvin Jones. Entrano nella musica quanto la musica entra in loro, a tal punto che le note, per così dire, si riescono a ‘vedere’.
A Love Supreme è il capolavoro del 1965 di Coltrane e una delle pietre miliari della storia del jazz. Si tratta di una suite in quattro parti: Acknowledgement ‘presa di coscienza’, Resolution ‘riconoscimento’, Pursuance ‘conseguimento’, Psalm ‘salmo’, per Un amore supremo verso l’entità soprannaturale ispiratrice, una specie di cammino spirituale dedicato a Dio di intensità profonda e ispirazione fortissima. “Il mio obiettivo – sosteneva il sassofonista afroamericano – è vivere in modo veramente religioso ed esprimerlo con la musica”.
Il gruppo si sostiene, si prende e lascia, l’ouverture è nel silenzio, rotto unicamente dai passi sulla scena spoglia. Sono tutti insieme e l’unisono è un tempo cercato ognuno per conto proprio. Non appena la geometria condivisa si rompe, ciascuno va a cercarla dentro di sé, slanciando le braccia, le gambe. El Had, Respilieux, dos Santos, si ritirano due a sinistra e uno a destra, in mezzo, sul fondo, resta Vantuycom.
È lui lo spirito indomito della creazione, osserva lo spazio per intero, lo ascolta, tra i respiri e il ronzio dei generatori della Stazione Leopolda. Aspetta, come se volesse dar peso all’attesa dell’ispirazione, che arriva quando vuole. Il suo è un assolo di figure puntute, le mani sono onde che si infrangono le une contro le altre.
Il primo suono udibile di A Love Supreme, un colpo di gong, indica istantaneamente qualcosa fuori dal comune. Subito dopo Coltrane suona una breve fanfara per richiamare l’attenzione sul dono spirituale del genio, la benedizione celeste dell’estro. Le quattro parti hanno una robusta connotazione drammaturgica, dalla scoperta del divino al salmo di ringraziamento l’andamento è circolare e unitario: un fluire vulcanico e ascetico, che la compagnia Rosas restituisce con controllo e abbandono, fervore e rigore quasi ipnotici.
Da separati che erano alla fine ritornano uniti, la musica scivola, rallenta, scolora in un commiato di tutti a tutti, uno stringersi per non lasciare trapelare l’inquietudine del viaggio ormai terminato. Le luci di taglio gettano ombre contrastate sui muri circostanti, è l’addio, forse l’infinito, l’orizzonte terminale della trascendenza.
Questo soltanto Coltrane può dirlo e infatti per ultimo resta il suo sax. Poi, il buio.