EMILIO NIGRO | Il teatro e la sua politicità. Non solo evasione ma strumento di critica, ai potentati e la loro “misteriosa” iniquitatis. Demagogia travestita da democrazia, negazione dei valori della vita associata a favore dell’individualismo clientelare, il trionfo, quindi, della disonestà e della corruzione a danno della collettività (le cronache attuali di leggi teatrali ad personam testimoniano, per esempio). Usurpare le risorse collettive fa conseguire strumentalizzazione delle masse, provocando inettitudine, vessazione, miseria, stolidità, vigliaccheria, servilismi, ingenuità, storture intellettuali.
La critica teatrale, intesa come formalizzazione sul palco, può rappresentare deformando iperbolicamente, con la capacità di folgorazioni sintetiche più eloquenti di qualunque requisitoria, di qualsiasi indagine e controinformazione.
E mentre altrove direttori e organizzatori di festival e rassegne adottano la politica degli scambi, dei favorucci, pagano sedicenti giornalisti per diffondere propaganda, sguazzano negli inciucetti teatrali e si compiacciono delle gitarelle offerte ad operatori – con tanto di consorti – per poterne dire bene e ricambiare la gentilezza, da qualche parte si fa teatro. Si fa ricerca. Si indaga sull’atto creativo. Si ripropone il più potente rito collettivo di ricreazione intima ed umana. Uno dei più efficaci strumenti di democrazia. L’uomo che sa di sé mediante un fatto artistico. Perché non si esaurisca nell’autoerotismo della spettacolarizzazione, della messa in piedi di eventi risonanti.
Teatro Akropolis, nel nome già un’intenzione. A Genova, la città più mediterranea del nord. Guazzabuglio d’anime e d’umori, imprevedibile, guizzante, aristocratica e popolana. Puzzo di mare e cemento. E voglia di guardarsi e dirsi senza dire.
Clemente Tafuri, David Beronio, Veronica Righetti, le anime della compagnia. E tanti altri come anelli d’un pianeta. Quindici anni di pratica teatrale, un festival attivo da anni (quest’anno spalmato per oltre un mese e concluso con la storica convention di Ivrea) e una ricerca costante. Uno studio non accomodato. Sapere messo in atto. L’idea dell’arte come esperienza conoscitiva privilegiata. Il progetto di compagnia arabesco testimonianza d’un lavoro duraturo e concepito dal pensiero che “il corpo umano in movimento produce immagini”. E l’immagine è il primo modo per cui si attiva il pensiero (De Chirico), il linguaggio primordiale della mente.
Uno studio da cui nasce Morte di Zarathustra, opera messa in scena dalla compagnia e in giro per l’Italia. Un momento extrascenico, e una offerta al pubblico.
Ecco come la pratica teatrale non si riduce ad un professionismo mercenario e di posizionamento. Diventa un atto collettivo, di lavoro e dedizione, artigianale anche e prima intellettuale. Dall’interrogarsi e smembrare culturalmente una intuizione, una ispirazione, una suggestione al renderne materia plastica sul palco. Con l’estetizzare gli atti inconsueti durante il processo creativo (Grotowski di questa maniera ne ha fatto vangelo, parlando di atto psichico). Un teatro riproposto nel modello originario, tramandato. E cos’è la tradizione se non la ritualizzazione di fenomeni perché gli uomini abbiano memoria di loro stessi?
Al festival Testimonianze, ricerche, azioni dal 21 marzo al 7 maggio scorso, hanno partecipato una moltitudine di artisti, critici, operatori, curiosi, spettatori non professionisti, gente comune.
E a fine spettacolo, nel buio del teatro illuminato appena da una fioca luce di taglio lasciata flebile, un cerchio di uomini si trova a parlarsi senza filtri di posizione o ruolo. Perché scossi, provocati, suscitati dalla visione teatrale e riconosciuti l’uno nell’altro. Senza organizzarsi. Sciolti da qualche bicchiere di vino. E la promessa di ritrovarsi. Di fare insieme. Di ricreare. Questo, fa il teatro.