RENZO FRANCABANDERA E ELENA SCOLARI | ES: La virilità. Macbeth ha a che fare con la virilità, non trovi? Concetto un po’ sfumato, oggi, anche in teatro. Ma Macbeth è la tragedia della carneficina, e le carneficine sono affare da uomini. Tutti uomini sono gli attori in scena per il Macbettu di Sardegna Teatro/Teatropersona. Proprio come ai tempi di Shakespeare, ormai lo sanno anche i sassi, e qui sassi ce ne sono, vengono impilati a formare un piccolo nuraghe, un parallelo tra la costruzione tipica e arcaica della Sardegna e la fabbricazione graduale dei piani della tragedia, ogni pietra un capitolo del disastro che si va consumando.
RF: Saranno anche affare da uomini, ma le donne prossime ai carnefici e che ne armano la mano non sono rarissime. Ci deve essere un sottile piacere nell’accendere la miccia. Il regista, affidando la Lady Macbeth ad un uomo, allude forse alla possibilità che le donne incendiarie abbiano un maschile sviluppato ma, tant’è, sempre donne restano, con la loro capacità di sedurre e muovere, ed è uno dei motivi per cui questo dramma shakespeariano continua ad avere fortuna incredibile. Anche solo in questa stagione conto almeno tre o quattro allestimenti di livello, per tacere del recente film. In questo spettacolo, poi, il codice è teatrale purissimo, nel gioco di corpi, luci e parole.
ES: Non abbiamo ancora detto che tutto lo spettacolo è recitato in sardo (il testo è stato tradotto da Giovanni Carroni), dialetto (o meglio, lingua) terrigno, dal suono primordiale, che ben si allinea con la crudezza dell’opera. Opportuni i sopratitoli in italiano che aiutano noi continentali. Io che sono del nord Italia non distinguo tra sardo sassarese e sardo nuorese ma da una conversazione con alcuni degli attori sono venuta a sapere che diverse cadenze sono state provate per i vari personaggi fino a giungere a questo risultato. Mi sembra un punto importante della ricerca linguistica, da non trascurare perché – ad esempio – se si trattasse di “lombardo” ben diverso sarebbe il bergamasco dal cremonese.
RF: Altrettanto curato è, come sempre, lo spazio, elemento da sempre oggetto di attenzione particolare da parte di Serra fin dai suoi primi allestimenti come Teatropersona, con un fuoco particolarissimo sulla ricerca dell’ambiente scenico fra movimenti e luci. Negli anni, questo processo ha via via distillato, dalle iniziali acerbità, una capacità di completare la precisione di sguardo anche nel lavoro sugli attori, sulla voce e qui, con la robustezza drammaturgica del testo del Bardo, arriva ad una maturità compositiva che riverbera nelle sonorità e nella tavolozza emotiva e cromatica.
ES: Io approvo la scelta dei colori, dei materiali: nero, marrone, legno, sughero, polvere, pietre… Tutti elementi di un clima arcaico che porta sciagure. E che mi hanno ricordato i toni del mirabile Makbetas di Eimuntas Nekrosius, con quel grande tronco oscillante come un metronomo e materie scabre, grezze. (Un modello niente male).
Qui si inizia con un rombo di terremoto, ad annunciare fin da subito che si tratterà di pesanti scosse, che squasseranno i destini di tanti.
RF: Sono musiche che rientrano in un’ancestralità rituale, che Serra ha cercato anche nella tradizione dello specifico sardo, rivisitandolo con intelligenti riscritture del presente come la partitura musicale, realizzata da Marcellino Garau con le pietre sonore del grande e compianto Pinuccio Sciola, un artigiano fantastico che ha segnato la storia recente della musica in Sardegna, incidendo in profondità le pietre di quella terra per farne strumenti musicali a percussione. Qualcosa da sperimentare assolutamente nell’ascolto. E che ben trova casa nell’impianto registico.
ES: La regia di Alessandro Serra è precisa, serrata, ritmata non solo dallo scandire della lingua ma anche da suoni secchi, spaventosi e da una danza di movimenti (collaborazione di Chiara Michelini) dietro ai quali sta un rigore estetico non frequente (emerge la formazione grotowskiana di Serra).
Quel muro scuro, a fondo scena, che si smantella con colpi duri e implacabili e batte il tempo della rovina che rotola inclemente verso il povero Macbeth, è una bellissima metafora della costrizione di cui gli umani troppo ambiziosi sono vittime.
RF: La scelta concettuale è fedele al richiamo dell’arte povera, sia nel lavoro sugli attori e sullo spazio scenico che con riferimento agli elementi della scena stessa: pietre, maschere di sughero riadattate a ricordare i mamuthones del carnevale di Mamoiada (mentre nella finzione scenica si tratta della foresta di Birnam che muove guerra al sovrano assassino). Per me una grandissima trovata, che porta tutto questo magma scenico all’interno dello spazio del rito, che anche in Sardegna è fatto di demoni, streghe e figure che fanno da medium fra il mondo dei viventi e quello dei defunti.
ES: Irresistibili anche le streghe, le sorelle fatali che si muovono sempre come un essere trino, giocano tra loro in gag clownesche, si fanno scherzi perché loro sì, possono indulgere a divertirsi mentre assistono al progressivo sventurato realizzarsi delle profezie. Maschere indefinibili come il male che portano. Un carnevale ferino che si richiama, come dicevi, ai riti barbaricini, ai mamuthones, personaggi qui forse non sempre inquietanti ma senz’altro di un altro mondo.
Tutta la compagine degli otto attori è equilibrata: il Macbeth di Leonardo Capuano è cupo, contratto, comprime una rabbia che si dissolverà nella sua fine in quello splendido testamento “La vita e’ solo un’ombra che cammina, un povero attore che si pavoneggia e si dimena durante la sua ora sul palcoscenico, dopo non se ne sentirà più nulla. Una favola narrata da un idiota, piena di rumore e furia, che non significa nulla“. Una futtitura, insomma.
Bello l’effetto visivo della sottile e alta Lady Macbeth, una figura che si differenzia fisicamente da tutti ma è un poco affrettata la sua opera di insinuazione nei confronti del marito.
Voglio citare anche Maurizio Giordo, che esalta la scena del portiere ubriaco, barcollante di fronte alla porta che ondeggia come lui, in un crescendo di espressioni facciali ebbre di gradazioni.
RF: Concordo su questo senso molto nitido di un’orizzontalità fortissima del lavoro sugli attori, che arriva ad annullare primadonnismi di sorta a tutto vantaggio di una resa scenica che torna ad esaltare il teatro come mezzo per il racconto e la suggestione ad altissimi livelli. Se Serra riuscisse a mantenere anche nei prossimi esiti una profondità di analisi così alta e una capacità di tenere con così lucida fermezza le briglie degli elementi costitutivi del teatro, ci troveremmo sicuramente davanti ad un salto di maturità che lo proietterebbe nel novero di una élite della regia che ultimamente si è andata impoverendo e che sente fortissimo il bisogno di nuove creatività di spessore, anche per evitare di ritrovarci in cartellone sempre i “soliti” due-tre nomi. E anzi, questa essenzialità art brut è molto interessante, contrapposta a ricerche di altri registi più votati al barocco. Insomma queste mani nel piatto sardo hanno fatto un gran bene a Serra.
ES: Vedi tu cosa può succedere a calpestare il pane carasau…
MACBETTU
di Alessandro Serra
tratto dal Macbeth di William Shakespeare
con Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino.
traduzione in sardo e consulenza linguistica Giovanni Carroni
collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini
musiche: pietre sonore Pinuccio Sciola
composizioni pietre sonore Marcellino Garau
regia, scene, luci, costumi Alessandro Serra
produzione | Sardegna Teatro e compagnia Teatropersona
con il sostegno di Fondazione Pinuccio Sciola | Cedac Circuito Regionale Sardegna